2012-03-01

Premessa

 

Il panorama culturale europeo negli ultimi anni si è trovato ad affrontare una serie di problematiche di carattere economico-finanziario che, per quanto riguarda in particolare l’ambito museale, ha visto i paesi reagire tramite la ricerca di soluzioni differenti ma identiche nella comune tendenza a individuare forme di gestione che consentano una maggiore autonomia dall’apparato pubblico, tanto nella gestione organizzativa che finanziaria.

 

Le leggi del mercato e del marketing, pervadendo anche il settore culturale, hanno imposto un ampio ricorso a strumenti di diritto privato e a forme giuridiche flessibili. Proprio da qui nasce la comune istanza di modernizzazione dei musei, fondata sulla ricerca di strumenti di gestione ibridi, capaci di contemperare gli interessi dei diversi attori che gravitano intorno al settore culturale.

 

Al fine di operare alcune riflessioni d’insieme sul quadro nazionale attuale, il contributo propone un’analisi comparata con la Francia, paese che tra quelli a tradizione pubblicistica rappresenta senz’altro il caso più esemplare.

 

Lo stato dell’arte in Italia

 

In tempi di crisi e di tagli dei trasferimenti pubblici, il ruolo pervasivo dello Stato sulle politiche del settore si è andato progressivamente indebolendo, quale conseguenza della crescente necessità delle amministrazioni di individuare formule di mobilitazione di risorse private per il perseguimento di finalità di utilità sociale.
La sfida concreta era, ed è tuttora, l’individuazione e la messa a punto di una realtà capace di contemperare punti di forza e criticità del pubblico e del privato, per ottenere dall’ interscambio di risorse e competenze un potenziamento vicendevole tra sfera economica e sfera culturale.

 

Sul fronte museale, in particolare, sappiamo come negli anni il legislatore italiano abbia individuato nella Fondazione di Partecipazione l’istituto più appropriato per una gestione integralmente condivisa tra pubblico e privato.

 

Tuttavia, sebbene si tratti di un fenomeno ormai consolidato nell’ambito di beni culturali, ancora non vi  sono prove certe circa la preferibilità della Fondazione di Partecipazione ai fini di un’efficace gestione delle attività culturali. Né deve trarre in inganno la consistenza del dato quantitativo, che non coincide necessariamente con quello qualitativo.

 

Le criticità insite nella stessa costruzione dell’istituto, se non correttamente valutate, possono infatti dar luogo a distorsioni e usi impropri. La Fondazione di Partecipazione in quanto istituto atipico e non disciplinato dal codice civile, richiede una particolare prudenza nella definizione di risorse e condizioni nel momento della ripartizione di compiti e poteri decisionali. In particolare, una mancata riflessione sulla definizione dei rapporti tra Fondazione e apparato pubblico potrebbe facilmente compromettere la vita futura dell’ente.

 

Il pericolo maggiore di una cattiva valutazione delle poste in gioco si celerebbe pertanto nello stesso punto di forza dell’istituto: l’apertura a soci successivi di natura privata, la quale potrebbe pregiudicare l’indirizzo politico dell’ente, qualora il socio privato che eventualmente partecipasse in misura ingente al fondo di gestione acquisendo una quota maggioritaria in seno al Consiglio di Amministrazione se ne servisse per esercitare un potere decisionale risolutivo.

 

Il caso. Le Fondazioni La Triennale di Milano e La Biennale di Venezia

 

Tali considerazioni sono alla base dei forti limiti posti dall’apparato pubblico all’adozione di forme privatistiche in materia di gestione di musei.

 

Tra i primi esperimenti nostrani di “de-statizzazione” di enti culturali, l’esempio de La Triennale di Milano si ricorda come uno dei più ambiziosi, quantomeno nei propositi. La Triennale,  in origine Ente pubblico, con decreto legislativo 20 luglio 1999, n. 273 viene trasformata in fondazione, con l’intento esplicito di accrescere l’efficacia delle prestazioni dell’ente. Dalla natura dei soci istituzionali si percepisce però immediatamente il persistere di antichi retaggi statalisti: Ministero dei Beni culturali, Regione Lombardia, Provincia, Comune e  Camera di Commercio di Milano.  Tuttavia, deve riconoscersi all’iniziativa il merito di aver guardato per la prima volta al privato come fonte di sostenibilità economica. Seppure l’autofinanziamento della struttura a distanza di anni si sia dimostrato più apparente che reale, l’esperienza nasconde in sé un germe positivo di connessione tra pubblico e privato, con una logica di abbandono del concetto di sponsor a favore di una proposizione di progetti condivisi da soggetti terzi, con ciò aprendosi al senso profondo del modello di partnership.  Tuttavia, le amministrazioni negli anni non sembrano aver recepito il segnale positivo, tornando su posizioni di rigida chiusura verso l’esterno.

 

Si prenda ad esempio il noto caso della Fondazione La Biennale di Venezia. La Fondazione, nata nel 2004 dalla trasformazione ex lege (d.lgs. n. 1/2004) della Società di Cultura La Biennale di Venezia, ha rivelato fin dalle origini l’evidente discrasia tra il dichiarato e il realizzato: malgrado la denominazione privata, i componenti di diritto sono limitati a soggetti di natura esclusivamente pubblica (Sindaco di Venezia, Presidente della Regione Veneto, Presidente della Provincia di Venezia) e la disciplina legislativa si sostanzia in una molteplicità di fattori che evidenziano la persistenza di legami organici e di controlli tipici dell’amministrazione centralizzata e burocratica. Basta una rapida ponderazione degli elementi organizzativi per individuare i caratteri che contraddistinguono l’istituzione quale ente pubblico, con ciò dimostrando la diffidenza del legislatore nell’adozione di forme giuridiche aperte al privato.

 

Alla base delle opportunità mancate per un valido ingresso dei privati in ambito culturale, vi è dunque una corretta cautela, alla quale però non è corrisposto un ragionamento sulla più efficace composizione degli interessi in gioco.

 

Come se non bastasse, il quadro è complicato da un ulteriore limite, stavolta endemico alla stessa struttura giuridica della Fondazione di Partecipazione: infatti, al di là dello “spauracchio” di un privato speculatore,  manca in essa l’ elemento essenziale – richiesto dal codice civile per l’istituto ordinario – dell’esistenza di un patrimonio adeguato allo scopo, cosa che impone come indispensabile per la vita futura dell’ente un bilancio in equilibrio. Una non corretta valutazione di questo aspetto potrebbe comportare una serie di conseguenze negative, tra le quali si citano:
- la possibile mancanza di stabilità minima delle risorse messe a disposizione per la gestione;
- in caso di richiesta di finanziamenti pubblici, la mancanza di un “polmone” che garantisca una sostenibilità delle attività nell’attesa del finanziamento, che potrebbe subire ritardi anche considerevoli.

 

Ecco allora emergere l’ulteriore debolezza del sistema gestionale come finora organizzato: la disattenzione alla sostenibilità finanziaria,  principale causa del dispendio di risorse economiche – già notoriamente limitate – delle strutture museali. Se in una visione di breve periodo il ricorso alla costituzione di una Fondazione di Partecipazione
può apparire un’ottima soluzione, in una visione di medio lungo periodo potrebbero riaffiorare i medesimi problemi che oggi affliggono le istituzioni culturali, non risolvendo il problema dell’indebitamento e dell’instabilità economica. Ed è proprio sul dato finanziario che sarebbe opportuno riflettere per intervenire sul supposto fallimento dell’esperienza italiana, nella ricerca di una modernizzazione della gestione culturale in senso privatistico.

 

Il caso della Francia

 

Il riferimento alla Francia è utile per un confronto della capacità di quel sistema di creare forme giuridiche inedite per adattarle a nuovi contesti.

 

Il sistema giuridico francese è storicamente incentrato su un potere statale fortemente ingerente nelle scelte di politica culturale.  Anche quando si ha un’apertura al privato, prima tramite forme di associazione e poi di fondazione (di pubblica utilità e d’impresa), lo Stato sorveglia gli atti di costituzione all’interno di un’ ottica protezionistica, intervenendo nella creazione delle stesse in maniera decisiva. Le autorità amministrative impongono alla struttura un progetto fondato sull’equilibrio dei conti e assicurante l’indipendenza della fondazione: ne risulta un sistema basato su un rifiuto radicale di uno squilibrio monetario, non essendo possibile la costituzione di una fondazione di cui non siano assicurate l’indipendenza e la solidità finanziaria., pena il rifiuto del riconoscimento.

 

Questa pervasività dello Stato, a partire dagli anni ’90, ha risposto alle istanze di modernizzazione e privatizzazione tramite un adattamento del ruolo giocato dallo Stato, con un’evoluzione che lo ha visto trasformarsi da “Stato conservatore” a “Stato imprenditore e organizzatore”, mostrando un’amministrazione centrale elastica, capace di assumere compiti nuovi, anche commerciali e di gestione.

 

La Francia ha posto particolare attenzione all’aspetto commerciale nella gestione del cambiamento, sulla base della consapevolezza della necessità di un forte investimento per l’autosostentamento della struttura, seppure tramite l’affidamento di funzioni finanziarie e commerciali direttamente all’apparato pubblico, preferendo incrementare le risorse economiche non tramite la trasformazione in imprese private ma attraverso l’introduzione di attività satellite nel nuovo sistema di gestione.

 

Caso emblematico, la strategia della brand personality applicata addirittura a strutture nazionali., come testimonia l’esperienza del Louvre. L’illustre istituto, prima museo nazionale, a seguito della trasformazione  nel 1992 in Établissement Public Autonome ha beneficiato  di un notevole potere di autogestione, che gli ha permesso un libero sviluppo.

 

Il Louvre ha da allora avviato un’attenta politica commerciale e finanziaria, culminata nel 2009 con la capitalizzazione del proprio business, sulla scia del modello gestionale di stampo americano. Tale strategia ha dato vita al progetto “M21”, che sta per “Museo del ventunesimo secolo”, iniziativa che ha fatto a lungo discutere, rendendo la struttura bersaglio privilegiato delle taglienti critiche di quanti ritenevano che in tal modo si snaturasse la natura del museo, fino a paragonarlo ad un nuovo “parco giochi”. Ciononostante, il Louvre ha proseguito nella sua nuova politica di gestione, arrivando ad ottenere importanti ricavi dal processo di “brandizzazione” avviato nel 2007, tramite la creazione di una  “succursale” ad Abu Dhabi. La gestione dei fondi derivanti dalla concessione trentennale del brand “Louvre”, attraverso un’attenta capitalizzazione, ha così permesso l’esponenziale sviluppo delle innovazioni apportate alla struttura e alle attività dalla stessa offerte, grazie  al reinvestimento dei proventi dagli Emirati.

 

Carta vincente dell’operazione? Uno Stato consapevole dell’efficacia di una tale strategia e soprattutto dell’impossibilità di avviarla direttamente.

 

Conclusioni

 

Aldilà del caso simbolo del Louvre, in Francia la decentralizzazione di gestione ha mirato tanto ad un’autonomia di azione quanto ad un’autonomia budgetaria delle strutture e degli attori al loro interno, incentrando sulla responsabilizzazione della dirigenza il punto di forza della sostenibilità delle stesse.

 

In Italia, un progetto avviato nel novembre del 2008 dalla Commissione tecnico-scientifica istituita dall’Ufficio studi del Ministero per i Beni e le Attività culturali nell’ambito dei programmi “Verifica degli standard museali” e “Laboratori per il miglioramento delle forme di gestione e dell’offerta dei servizi nelle strutture aperte al pubblico”, sembra tener conto del fatto che le maggiori criticità dei musei nazionali siano da riconnettersi all’ incerta definizione del loro assetto istituzionale. Principale risultato di tale progetto è stata la definizione di uno standard di regolamento per i musei statali, che si presenta come un primo passo verso la predisposizione di un percorso ampliabile a realtà museali di natura non esclusivamente pubblica. Al fine di una maggiore autonomia dei musei, il dato di rilievo che emerge da tale modello di regolamento consiste nell’attenzione riservata a fattori determinanti in relazione al piano dell’organizzazione e dei flussi decisionali: professionalità e funzioni del direttore generale, puntuale programmazione economico-finanziaria, gestione del personale.

 

La capacità di conseguire un equilibrio economico-patrimoniale di bilancio, desumibile dalla realizzazione di ricavi propri provenienti dalle vendite e dalle prestazioni rese, dal continuativo apporto finanziario, alla gestione o al patrimonio, da parte di soggetti privati, nonché dalla capacità di attrarre sponsor privati, e l’attribuzione all’organo di gestione di un’adeguata autonomia decisionale, sono giustamente percepiti come fattori indispensabili per una dinamicità dell’operare del museo, tale da garantirgli un accrescimento delle sue capacità decisionali.
Il disegno normativo delle Fondazioni di Partecipazione così come ipotizzato agli inizi della loro apparizione in materia di gestione museale sembra esser stato tradito dalla realtà dell’ultimo ventennio. Finora sembrerebbe che l’autonomia della struttura culturale sia stata pensata più per sgravare l’apparato pubblico di una serie di contributi alla cultura, quanto piuttosto al fine di aumentare l’efficacia delle istituzioni culturali.

 

Per contrastare un pericoloso e graduale collasso del sistema è forse opportuno non lasciare inespresse le voci di quanti sostengono un uso sapiente delle Fondazioni di Partecipazione, con lo scopo di garantire una maggiore capacità decisionale ai musei italiani. Capacità che consenta loro una  più ampia libertà nell’attivazione di collaborazioni con soggetti terzi, di gemellaggi, di attività commerciali e di raccolta fondi, tali da renderli competitivi con i “cugini francesi” in particolare, e con le altre realtà internazionali in generale.

 

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