2011-09-01

Il ruolo di Whitechapel Gallery nel contesto urbano londinese

Whitechapel Gallery è un’istituzione culturale non profit fondata nel 1901 da un religioso, nel cuore di una zona degradata nell’Est di Londra, con il dichiarato intento di “bring great art to the people of East London”(1)  (“portare la grande arte alle persone dell’East End di Londra”). Nella sua storia, lunga più di un secolo, l’istituzione si è sempre distinta per aver attribuito all’arte un’utilità sociale, visione condizionata dalla posizione stessa della Galleria e dai finanziamenti grazie ai quali sostiene la sua attività. La sede è infatti nel quartiere Tower Hamlets, uno dei più poveri dell’intero Regno Unito, ma al tempo stesso tra i più vivaci sul piano creativo; i suoi principali finanziatori sono enti pubblici, dal London Borough of Tower Hamlets all’Arts Council. Per ovviare alle pressioni e agli indirizzi dell’amministrazione locale, sul finire degli anni Ottanta Whitechapel Gallery istituisce una programmazione educativa, facente capo al dipartimento Education, che andasse incontro alle politiche sociali locali, lasciando per contro totale libertà al dipartimento Exhibition nell’ideazione di mostre temporanee dai contenuti più sperimentali (e dunque poco popolari). Il programma educativo si è sempre svolto in accordo con le amministrazioni pubbliche e ha spesso interessato gli abitanti della zona, per lo più persone di origine bangladese (il 57% della popolazione dell’area)(2).

Nel 2007 Whitechapel Gallery è coinvolta in un processo di riqualificazione urbana, fortemente sostenuto dall’amministrazione municipale e di quartiere desiderosa di attivare una serie di politiche volte alla regeneration della zona sud di Brick Lane, così come era avvenuto in anni precedenti per l’area settentrionale, valorizzata grazie alla presenza di numerose industrie creative. Anche questa seconda fase di riqualificazione si caratterizza per il ruolo centrale affidato all’arte contemporanea, alle istituzioni e alle industrie culturali e, in particolare, Whitechapel Gallery viene indicata nei piani urbanistici(3) quale attore fondamentale di questo processo. Per queste ragioni nello stesso anno la Galleria riceve un finanziamento per raddoppiare l’estensione della sua superficie espositiva: dei tredici milioni di sterline necessari per i lavori di ampliamento oltre la metà provengono dagli enti pubblici promotori delle attività della Galleria.

Il progetto The Street

Nel 2008 la sede di Whitechapel Gallery chiude al pubblico per i lavori di ampliamento, durati oltre due anni: in questo periodo di tempo si svolge la fase più significativa del progetto The Street, un progetto che proietta la Galleria all’esterno, diffondendola nel contesto urbano circostante. Il progetto – ideato da Marijke Steedman e Anthony Spira, rispettivamente curatori dei dipartimenti Education e Exhibition.- si articola in due fasi: la prima, nel periodo compreso tra marzo 2008 e gennaio 2009, da svolgere “fuori sede”; la seconda, compresa nel biennio 2009–2011, in cui attuare un programma espositivo per collegare l’interno della nuova sede della Galleria con l’esterno. Per il primo anno il progetto The Street si concentra in Wentworth Street, un luogo simbolico dell’intreccio di attività e diverse condizioni sociali che caratterizza tutto il quartiere, sede giornaliera del Petticoat Lane Market. La prima fase si sviluppa in otto interventi principali, commissionati a otto diversi artisti o collettivi di artisti, che si susseguono durante il primo anno, avendo come base un ex negozio di cappelli con due vetrine sulla strada, The Shop.

Gli artisti invitati a presentare un progetto site–specific sono Nedko Solakov, Bernd Krauss, Shimabuku, Eileen Perrier, Jens Haaning, Henry VIII’s Wives, Melanie Manchot e Minerva Cuevas. Il progetto The Street ha l’intento di proporre uno spazio per l’arte “that is not contained by bricks and mortar. Devised by the Whitechapel to coincide with the closure of its main galleries […], it emphasises the gallery’s role as mediator between art, artists and audiences. It proposes that the field of engagement is neither the gallery, the studio nor the home, but the street(4)” (“che non è delimitato dai tradizionali mattoni e malta. Ideato da Whitechapel in concomitanza con la chiusura delle sue gallerie principali, […] esso sottolinea il ruolo della galleria come mediatore tra arte, artisti e pubblico e propone che il terreno di sfida non sia né la galleria, né lo studio, né la casa, bensì la strada”). Recarsi in un mercatino cheap per vincere un’opera d’arte; trovarsi a bere un tè con uno sconosciuto nel suo salotto/negozio; trovarsi impossibilitati a camminare sul marciapiede a causa di una gigantesca scatola di cartone spuntata da un giorno all’altro; pensare di essere in anticipo/ritardo perché l’orologio pubblico è puntato sull’ora di un paese lontano; farsi fare un ritratto da una fotografa professionista; tentare di prendere un ascensore che non porta da nessuna parte; riconoscersi da piccoli in una foto ricordo di una festa di cui si era persa memoria o mangiare un gelato al prezzo di un gettone: questi gli effetti sul pubblico degli otto interventi artistici, che hanno spostato l’attenzione dal quotidiano allo speciale, sorprendendo per un attimo il pubblico occasionale di passaggio per la strada.

Cornice teorica del progetto The Street: definizione di public art dagli anni Sessanta a oggi; l’arte community–based

Il termine public art è utilizzato dalla critica per indicare una varietà di pratiche artistiche molto distanti tra loro. A seconda dei punti di vista la sua definizione si basa sul tipo di accessibilità dell’opera (spazio privato/spazio pubblico), sul tipo di collocazione (all’aperto/al chiuso), sul tipo di pubblico (gruppi sociali non educati all’arte contemporanea/élite culturale), sulla modalità di relazione tra l’opera e i fruitori (attiva/passiva), sul tipo di progettualità adottata dall’artista (site–specific/scultorea).

Quest’ultimo principio in particolare ha stimolato la ricerca di Miwon Kwon, professoressa di storia dell’arte all’UCLA, che in un saggio del 2002(5)  individua le tre modalità che caratterizzano l’approccio allo spazio pubblico, citando come esempi interventi realizzati negli Stati Uniti, ma allo stesso tempo riferibili a tutto il contesto anglosassone: art–in–public–places (arte in luoghi pubblici), art–as–public–spaces (arte come spazio pubblico), art–in–the–public–interest (arte nell’interesse pubblico). Nella prima definizione, diffusasi a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, rientrano le “modernist abstract sculptures that were often enlarged replicas of works normally found in museums and galleries”(6)   (sculture moderniste astratte che spesso sono state le repliche ingrandite di opere normalmente esposte in musei e gallerie). La seconda tipologia si diffonde a partire dagli anni Ottanta: al contrario della precedente, prevede una concezione dell’arte strettamente legata allo spazio pubblico, inteso però come spazio progettato architettonicamente, da decorare con “design–oriented urban scupltures […], which function as street furniture, architectural constructions, or landscaped enviroments”(7) (sculture urbane vicine al design, facenti funzione di arredo stradale, costruzione architettonica o ambienti progettati dal punto di vista paesaggistico). Con il terzo paradigma l’autrice individua invece un approccio diffusosi a partire dagli anni Novanta, che pone al centro del lavoro la nozione di community, sostituendo quella di site. Gli artisti intervengono considerando come “cornice” dell’opera non più lo spazio fisico, bensì le condizioni sociali delle zone d’intervento, interagendo con le comunità residenti, che spesso vengono coinvolte nel processo creativo. In questo procedere “partecipativo” vi è la convinzione che l’azione (artistica?) abbia il compito di aprire la strada al riscatto da condizioni sociali difficili e rendere la comunità consapevole del proprio valore, rafforzandone il senso di appartenenza e integrazione. Si propone così un’arte al servizio delle amministrazioni e delle loro politiche sociali, il cui fondamento retorico è “a political aspiration toward the greater ‘democratization’ of art” (un’aspirazione politica verso una maggiore ‘democratizzazione’ dell’arte). La prassi artistica così intesa si distanzia dal processo creativo a favore di un’assunzione di responsabilità sociale da parte degli artisti(8).

In conclusione, per rispondere alle distorsioni evidenziate nella community–based art, Kwon propone una nuova modalità di committenza “pubblica”, che tenga conto sia del valore del processo creativo sia della complessità identitaria delle città, evitando così di scadere nella mera forma di “assistenza sociale”. Per definire questo nuovo approccio l’autrice conia il termine collective artistic praxis: mentre la community–based art “is typically understood as a descriptive practice in which the community functions as a referential social entity”(9) (è generalmente intesa come una pratica descrittiva, in cui la comunità funziona come soggetto sociale di riferimento), il nuovo modello proposto può essere definito come a “projective enterprise” che

involves a provisional group, produced as a function of specific circumstances instigated by an artist and/or a cultural institution, aware of the effects of these circumstances on the very conditions of the interaction, performing its own coming together and coming apart as a necessarily incomplete modelling or working–out of a collective social process(10)  (coinvolge un gruppo temporaneo, creato in funzione delle circostanze definite dall’artista e/o dall’istituzione culturale. Il gruppo temporaneo è consapevole degli effetti sull’interazione di tali circostanze specifiche e realizza il proprio incontro e, successivamente, la propria separazione, come una modellazione o un’elaborazione del processo sociale collettivo necessariamente incompleta).

Criticità di The Street 1/3: il rapporto tra museo ed esterno

Promuovere il progetto The Street ha significato per i suoi ideatori interrogarsi sull’identità del museo oggi e sulla sua relazione con l’esterno. L’orizzonte teorico in cui questo progetto si è posto e si pone tuttora è quello della critica alle istituzioni, iniziata a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta e poi confluita nel new institutionalism, pensiero che ha caratterizzato il dibattito degli ultimi dieci anni interrogandosi su quale fosse il futuro delle istituzioni culturali come Whitechapel Gallery. A questo proposito si può affermare come la Galleria sia sicuramente un punto di riferimento, centro di una rete di relazioni continuative tra pubblico, artisti e istituzioni, ma rischi di trasformarsi in un gigante immobile all’interno del panorama dell’arte contemporanea, per definizione in continuo mutamento. D’altro canto però gli spazi espositivi alternativi al sistema tradizionale ospitano produzioni inedite e sperimentano nuove relazioni con il pubblico, ma sono soggetti a un’eccessiva caducità, un flusso di visitatori variabile e una mancanza di finanziamenti continuativi(11). The Street si è rivelato un tentativo di sperimentare una mediazione tra questi due modelli opposti ma allo stesso tempo complementari, nonostante il rapporto tra lo spazio outdoor, socialmente variegato e caratterizzato da una molteplicità di usi e funzioni, e il museo, uno spazio delimitato fisicamente e idealmente, rimanga un problema aperto. The Street ha contribuito a far emergere la problematica ed alimentato il dibattito in merito, ma le soluzioni sono ancora da ideare e percorrere.

Criticità di The Street 2/3: origine privata dei finanziamenti

The Street non ha ricevuto alcun finanziamento pubblico. Il progetto è stato interamente finanziato da privati (il gruppo finanziario J.P. Morgan e la Esmée Fairbairn Foundation), per un budget totale di circa 250.000 sterline. Questo per due ragioni:

1.    The Street non è assimilabile ai programmi educativi convenzionali, che per definizione sono progetti di integrazione demographic targeted, hanno un pubblico e uno scopo predefinito e di norma non hanno difficoltà a ottenere finanziamenti pubblici. Tali programmi infatti sono apprezzati e promossi delle amministrazioni pubbliche locali, che vedono nelle iniziative artistiche così organizzate la soluzione a molte emergenze sociali e la possibilità di riscatto di minoranze ai margini della società (carcerati, anziani, immigrati, ecc). The Street non si è rivolto ad un target demografico definito, perché le comunità presenti in Wentworth Street sono tante e di diversa estrazione: è proprio per esplorare un’alternativa a questa tendenza che la curatrice Steedman ha delineato The Street.

2.    The Street non è assimilabile ai programmi espositivi convenzionali, che per definizione prevedono la possibilità di contare il numero di visitatori, vincolando a questi l’ottenimento di finanziamenti pubblici. Da un lato perché le amministrazioni hanno fatto proprie le logiche più selvagge del marketing e pretendono un riscontro immediato, in termini di numeri, del successo di un’iniziativa culturale; dall’altro perché in campo culturale si è diffusa un’idea distorta di “democrazia”, secondo cui i soldi pubblici devono essere spesi per finanziare progetti di ampio successo di pubblico. Al contrario, si può invece essere d’accordo con Miwon Kwon quando afferma che questo atteggiamento è tacciabile di “authoritarian populism” e che la democrazia (culturale) non è questione di uguaglianza, ma di differenza(12) e pluralismo. Le istituzioni culturali – e soprattutto le amministrazioni che le finanziano – non dovrebbero infatti preoccuparsi esclusivamente del numero dei visitatori, ma dare importanza anche alla ricchezza e alla varietà dell’offerta di cultura proposta ai cittadini.

Criticità di The Street 3/3: il problema del feedback del pubblico

Per The Street si è tentato di ovviare all’impossibilità di ricevere un feedback dal pubblico, sia in termini di quantità di visitatori sia in termini di commenti sugli interventi, con “a matrix of evaluation and monitoring methods that we hope will offer a richer and more meaningful record of the outcomes of the project than is often achieved through the usual numerical metrics”(13) (una serie di metodi di valutazione e di controllo che ci auguriamo possa offrire una documentazione più ricca e significativa degli esiti del progetto, di solito valutato con la tradizionale misura numerica), obiettivo che non è stato però perseguito in modo sistematico e continuativo durante lo svolgimento del progetto.

La registrazione dei commenti, una delle novità introdotte per la valutazione, è risultata utile per comprendere più approfonditamente quale fosse l’impatto del progetto sul pubblico. Questo genere di interventi artistici sono normalmente documentati con fotografie che mostrano le persone mentre partecipano all’esperienza. È una sorta di ritorno alla “quarta parete”: noi spettatori, che non abbiamo preso parte all’interazione, possiamo soltanto limitarci a osservare da fuori, con il rischio che l’intervento artistico non venga né compreso né successivamente ricordato.

Risolvere questa polarizzazione, che da un lato include i partecipanti attivi o i fruitori sul posto e dall’altro esclude gli assenti, ovvero “passare dall’azione alla rappresentazione, è un punto critico con cui gli artisti, che si confrontano con questo nuovo linguaggio artistico, devono fare i conti”(14). Se è vero che, come suggerisce Alessandra Pioselli, quello che in questi casi distingue l’opera è “un valore che ha a che fare con lo stupore”(15), e che “è questa qualità di immaginazione e comunicazione che distingue il lavoro d’artista”(16), testimoniare se e soprattutto come questa comunicazione e questo stupore siano scaturiti è indubbiamente rilevante. Ma forse è eccessivo caricare gli artisti di questo compito: generalmente gli incarichi richiedono un intervento temporaneo, che scuota dal torpore dell’abitudine il fruitore “non intenzionale”. Questo influisce sulla genesi stessa del lavoro: l’opera è pensata per quel luogo o per quel contesto e, soprattutto, per non durare nel tempo. Se diventasse permanente, infatti, perderebbe la sua efficacia, passando da straordinaria a ordinaria.

La permanenza nel tempo non è dunque compito dell’artista, né può essere parte dell’opera: si vuole qui suggerire che possa essere compito del curatore attutire questa polarizzazione, con un lavoro di documentazione che vada al di là della mera ripresa fotografica, assai povera nel riportare le sensazioni dei fruitori. Non si sta proponendo di effettuare interviste per ogni lavoro, né video (che hanno più o meno la stessa rilevanza delle foto), ma piuttosto di aprire in modo sistematico un canale di comunicazione opzionale e volontario, sia esso un libro di commenti o un sito web, o un numero di telefono a cui mandare sms(17), che registri i commenti e le esperienze dei fruitori che hanno partecipato, anche solo con la loro presenza, al completamento dell’opera.

Una proposta per una nuova relazione museo/arte/pubblico: The Street come modello di collective artistic praxis

In conclusione, si può affermare che The Street si è rivelato un progetto curatoriale aperto al confronto con chiunque passasse per Wentworth Street, che ha avuto il merito principale di essere presente per strada. Tutto il resto è stato lasciato alla creatività degli artisti, su modello dell’incarico per la produzione di un’opera nuova per una mostra. Gli artisti sono stati invitati a lavorare con un approccio attento al contesto, ma senza essere obbligati a confrontarsi con una comunità in particolare, evitando così che il progetto si ponesse verso il pubblico non educato all’arte contemporanea con intenti “salvifici” o d’indottrinamento. Per un anno la presenza quotidiana e regolare del progetto nel contesto urbano ha dato luogo a una relazione continuativa con un nuovo pubblico, indipendentemente dal contesto sociale di provenienza. La presenza del team della Galleria e le comunicazioni via lettera ai commercianti e ai residenti della zona (sempre tradotte anche in bengali e somalo) hanno di giorno in giorno assicurato una cornice che ha garantito la riconoscibilità dell’identità artistica dei diversi interventi: il dialogo è stato una parte fondamentale del lavoro curatoriale(18).

The Street si è svolto fuori dalle mura di Whitechapel Gallery, ma non ha per questo negato l’utilità del museo. Ha creato per esso nuove possibilità di interagire con il contesto esterno e ha sottolineato l’opportunità per l’istituzione di adottare pratiche alternative: temporaneità e location “non protette”, fuori dalle sedi abituali. The Street ha permesso a Whitechapel Gallery di entrare in contatto con la realtà urbana circostante, intessendo relazioni con privati e partnership con gli enti della zona che altrimenti non potevano essere intraprese(19).

The Street ha inoltre proposto un modello alternativo alle logiche di marketing che spesso inquinano il settore culturale, negando il principio secondo cui un maggior numero di visitatori corrisponde a un maggior successo sul piano culturale: questo metodo di misura si è dimostrato infatti del tutto inadeguato per questa iniziativa come per molte altre, considerate soprattutto gli obiettivi di partenza(20).

Il progetto nel suo complesso può rientrare a pieno titolo nella definizione di collective artistic praxis(21), una “projective enterprise” che ha coinvolto in maniera temporanea gruppi di persone, che si sono creati in funzione delle specifiche circostanze definite dall’artista, che a sua volta ha dato vita ad un terreno d’incontro con il pubblico non intenzionale.

The museum, from this perspective, is no longer a container for art, nor does it manufacture consensual communities. If successful, it becomes a producer of and an arena for social and aesthetic experiences, temporarily interrupting singularities through the presentation of participatory art that actively generates a discursive public space. And as we head back home or to work after visiting the exhibition, this may resonate with us for a time, fostering a desire… (In questa prospettiva, il museo non è più un contenitore per l’arte, né un produttore di comunità consensuali. In caso di successo, esso diventa un produttore “di” e un’arena “per” esperienze sociali ed estetiche, disturbando temporaneamente i singoli attraverso la presentazione di arte partecipativa che dia vita a uno spazio pubblico di dialogo. E, mentre ci dirigiamo a casa o al lavoro dopo aver visitato la mostra, questa potrebbe risuonare con noi per un po’, accendendo un desiderio…)(22).

In questa ultima considerazione è racchiuso il senso di molte pratiche artistiche di questi anni, che come si è fin qui dimostrato, mirano ad innestare nel fruitore il ricordo di un’esperienza, l’accensione di un desiderio, l’epifania di un momento, in altre parole un elemento di rottura della quotidianità in cui siamo immersi normalmente. Compito delle istituzioni è creare queste possibiltià di incontro, dentro e fuori dalle loro sedi ordinarie.

Note

(1) cit. in [http://www.whitechapelgallery.org/about-us/history]

(2) “[the directorship] have to face political pressure, for instance from the Borough of Hackney as one of the local authority funders, to produce a “popular” programme. In this phase an education service was developed that effectively catered for local people […]”. In questo caso si fa riferimento alla direzione di Nicolas Serota (1976–1988), J. Steyn, From Masculinity to Androgyny: the Whitechapel Art Gallery, in, The Whitechapel Art Gallery Centenary Review, Whitechapel Art Gallery, London 2001.

(3) “Sites around the Whitechapel Art Gallery may be particularly suitable for a creative industries hub which would provide an anchor at the south end of Brick Lane and bring spin off benefits around Whitechapel High Street.” Commercial Land and Property Study Aldgate, tratto dal sito [http://www.cityoflondon.gov.uk/Corporation/LGNL_Services/Environment_and_planning/Planning/Local_Development_Framework/Locations.htm], p. 67.

(4) Tratto dal documento interno: Proposal to JP Morgan; Whitechapel Gallery – The Street, 29 marzo 2007, fonte: server di Whitechapel Gallery, 2007/09_19_Proposal to JP Morgan 28 March 2007 (MD FINAL).doc

(5) Si fa riferimento a M. Kwon, One place after another: site–specific art and locational identity, The MIT Press, Cambridge, Massachusetts 2002.

(6)La studiosa riprende il termine dal programma di commissioni d’arte promosso dal NEA (National Endowment for the Arts) nel 1967. M. Kwon, op. cit., p. 60.

(7) Ibidem.

(8) Rather than an object for individual contemplation, produced by a distant art specialist for an exclusive art–educated audience […], new genre public art seek to engage (nonart) issues in the hearts and minds of the “average man on the street” or “real people” outside the art world. In doing so, they seek to empower the audience by directly involving them in the making of the art work, either as subjects or, better, as producers themselves.

(9) “è generalmente intesa come una pratica descrittiva, in cui la comunità funziona come soggetto sociale di riferimento” (trad. mia). Ivi, p. 154.

(10) Ibidem.

(11) Per approfondire si veda L. Gillick e M. Lind. Curating with Light Luggage: Reflections, Discussions and Revisions, Revolver, Frankfurt am Main 2005.

(12) “Penso che di solito nei dibattiti si faccia confusione sulla questione dell’arte popolare’, il cui valore pubblico è determinato dal numero di ‘corpi’ che va al museo o dal numero di persone che potrebbero entrare in contatto con essa, solo perché è in uno spazio aperto. [...] C’è un termine che mi piace molto usato dalla critica britannica: ‘populismo autoritario’: un concatenamento di istituzioni, artisti, ecc per essere utile a un numero sempre maggiore di persone, il che in qualche modo è creatore di valore per la democrazia. Penso che questo concetto fondamentalmente opprima il principio di democrazia, che è una questione di differenza, piuttosto che uguaglianza” (trad. mia) M. Kwon, The life of artworks: creating exhibitions, Festival dell’arte contemporanea, Faenza, 26 luglio 2010

[http://www.festivalartecontemporanea.it/c-tv/gallery-video/the-life-of-artworks-creating-exhibitions].

(13) Proposal to JP Morgan, cit.

(14) L. Parola, Intervista a Gennaro Castellano, in “ArtKey Magazine”, 6 maggio 2005, [http://www.teknemedia.net/magazine_detail.html?mId=624].

(15) L. Perlo, Intervista a Alessandra Pioselli, in “ArtKey Magazine”, 7 marzo 2005, [http://www.teknemedia.net/magazine_detail.html?mId=575].

(16) L. Perlo, Ibidem.

(17) Ho partecipato in prima persona all’apertura di questo canale di comunicazione grazie al progetto Bologna la Selva Turrita, di cui la mia società ha curato l’ideazione e la produzione. Dopo aver installato tre opere d’arte pubblica su tre torri medievali abbiamo chiesto ai passanti di commentare gli interventi mandando un sms. Gli sms ricevuti sono tutti pubblicati sul sito della manifestazione: [http://www.iperbole.bologna.it/selvaturrita/sms].

(18) E avrebbe potuto esserlo in modo ancora più significativo se fosse stata intrapresa una documentazione delle esperienze dei fruitori in modo più sistematico, come testimonia anche il documento Comments and Observations, 27 settembre 2008, che raccoglie le osservazioni dei visitatori di The Shop.

(19) “a museum that offers open spaces for undefined interactions could radically change our general perception of the institution as an inflexible, deadening container” (un museo che offre ampi spazi per interazioni non definite potrebbe cambiare radicalmente la nostra generale percezione dell’istituzione come un contenitore inflessibile e sordo agli stimoli esterni). R. Frieling, Toward Participation in Art, in R. Frieling, The Art of Participation: 1950 to Now, San Francisco Museum of Modern Art, San Francisco 2008, p. 47.

(20) The Street è stato realizzato in un momento di prosperità che si è volatilizzato con il credit crunch dell’autunno 2008. La crisi economica e finanziaria oggi richiede un ripensamento di queste iniziative, che devono diventare più “leggere” in termini economici, ma devono continuare a essere supportate dalle istituzioni per non impoverire l’offerta culturale al cittadino.

(21) Definito da Kwon a conclusione del suo testo, op. cit., p. 154

(22) R. Frieling, op. cit., p. 48.

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