2011-07-26

1. Introduzione

I teatri sono da sempre una presenza significativa nelle città, tanto sul piano simbolico quanto su quello fisico. Un esame del territorio rispetto alla distribuzione delle sale teatrali permetterebbe di cogliere sia gli aspetti legati all’organizzazione di questa attività, sia la dimensione artistica ed estetica che la caratterizza, nonché gli usi sociali e culturali che il suo inserimento nella struttura urbana comporta. La posizione nella città è elemento costitutivo dell’identità di un teatro ed è di fatto “determinante nell’atteggiamento del pubblico” rispetto ad esso e alla relativa programmazione, insieme alle caratteristiche dell’edificio, alla capienza e infine alla storia e alla tradizione della sala (Gallina, 2007, p. 277). Tuttavia la storia testimonia anche quanto l’attività teatrale non abbia sempre avuto luogo nei teatri. Come scrive Fabrizio Cruciani, “di fatto nell’estensione cronologica e geografica degli eventi che sono stati assunti come teatro, si deve prendere atto che sono in numero molto limitato quelli pertinenti all’edificio teatrale come luogo attrezzato e progettato in modo specifico per gli spettacoli; troviamo invece teatro nelle fiere, nei mercati, nelle aie, negli spazi di raduno di una comunità; nei luoghi di culto, nelle chiese e sui sagrati; nelle piazze, nelle strade, nei cortili, in villa…” (Cruciani, 2005, pp. 90-91).

Dunque, insieme ai teatri come luoghi fisici ben identificabili, è la stessa organizzazione dello spazio urbano, ieri come oggi, a fungere molto spesso da territorio delle rappresentazioni teatrali. In altri termini, il rapporto tra lo spazio del teatro come luogo della messa in scena e l’ambiente che lo ingloba è sempre dialettico e multiforme, e soprattutto non è mai un rapporto neutrale.

Rinviando al testo di Cruciani per le dovute considerazioni in proposito, con l’espressione “spazio del teatro” si intende qui sia lo spazio interno ed esterno degli edifici adibiti all’allestimento di spettacoli teatrali, sia lo spazio dell’azione teatrale quando quest’ultima è agita all’aperto, sfruttando i diversi luoghi della città in senso ampio – non solo, quindi, piazze e cortili, ma qualunque altra ambientazione – e, infine, anche lo spazio (non teatrale) di edifici nati con una diversa destinazione, ma talvolta utilizzati per spettacoli o performance.

La città stessa, rispetto ai teatri e ad altri tipi di edifici, si struttura come rapporto tra un interno e un esterno. L’edificio teatrale “all’italiana”, con le sue caratteristiche – si pensi al tipico portico – costituisce un sistema simbolico: proietta verso l’esterno la sua immagine di tempio della “cultura alta”, alla quale si attribuisce “un’aura di sacralità” che contrassegna la sua separatezza dall’esistenza quotidiana (Griswold, 1994, trad. it. 2004, 20). Anche l’architettura degli spazi teatrali cosiddetti “alternativi” si connette alla loro collocazione nello spazio urbano come elemento qualificante dal punto di vista simbolico e sociale, ma in modo assai differente dai teatri storici o comunque dall’idea più o meno generale e condivisa di cosa sia un teatro. Questi spazi nascono con uno scopo utilitaristico (ad esempio una ex officina), e sorgono spesso in aree decentrate, normalmente deputate ad altre attività, quasi sempre non culturali, legate ai meccanismi di mobilità, residenza o servizio della collettività urbana.

Nel prosieguo si cercherà di riflettere su queste variazioni nell’uso dello spazio teatrale e nel rapporto tra questo e l’organizzazione spaziale della città, per poi fare riferimento a casi concreti, in particolare quelli della città di Napoli.

2. Dal Teatro-simbolo agli spazi alternativi

L’ambiente urbano contemporaneo è stato fortemente segnato prima dall’egemonia dei teatri all’italiana – il tipo di edificio per spettacoli predominante nella cultura europea dal XVI al XIX secolo (Cruciani, 2005) – e poi dalla perdita di significato dell’edificio-istituzione in quanto norma. Il regista e antropologo statunitense Richard Schechner parla di teatri “col proscenio” riferendosi all’assetto spaziale derivato dal teatro all’italiana, strutturato internamente dagli elementi che definiscono e separano sala e scena (Schechner, 1984, pp. 121-123). Per quanto riguarda l’interno, infatti, una prima differenza tra gli spazi tradizionali e quelli alternativi risiede proprio in questa separazione architettonica, rigida e culturalmente codificata, resa possibile dall’arco di proscenio. L’esterno, invece, è identificabile a partire dall’atrio, il quale, collegato al portico, “comincia in realtà sulla strada davanti al teatro”. Questo tipo di teatro è sovente un punto nevralgico del centro cittadino, connotato da meccanismi che convogliano verso di esso gran parte dell’attività sociale e culturale più importante. Il teatro-simbolo è qui collocato insieme ad altri luoghi di spettacolo, come i cinema, alle vetrine di negozi più o meno sfarzosi e spesso anche ad altri luoghi di cultura, in senso generale, come i musei o le chiese, ecc.

Nondimeno, entro numerose città, oltre e accanto ai teatri più importanti e popolari (anche nel senso del favore di cui godono presso un pubblico ampio), non è difficile trovare alcuni spazi “marginali”, piccole realtà più o meno indipendenti, spesso ben distinte sia dall’establishment culturale dei teatri pubblici – che in Italia, ad esempio, è rappresentato da gran parte dei Teatri Stabili e dai Teatri Comunali – sia da quello più commerciale di gran parte degli esercizi teatrali privati. Questi luoghi di spettacolo sono caratterizzati da una proposta culturale alternativa ai cartelloni teatrali maggiori e dalla collocazione in zone interstiziali dei centri cittadini o in aree periferiche. Il loro grado di centralità/marginalità non può però essere misurato semplicemente sulla base della loro posizione, proprio perché possono trovarsi anche in un centro storico, ma soprattutto perché, per il pubblico teatrale, la “’percezione’ di centro e periferia non sempre del resto corrisponde alla realtà urbanistica” (Gallina, 2007, p. 277) (1). Piuttosto, trovarsi ai margini vuol dire essere decentrati rispetto ad un sistema teatrale convenzionale. Talora ci si potrebbe anche riferire al fatto che si rivolgono a segmenti di pubblico meno estesi, cioè, come suole dirsi, di nicchia (2).

Alcuni di questi luoghi di spettacolo possono essere in un certo senso confrontati con quelli che Schechner (1984, p. 124) chiama “teatri environmentali – costruiti in spazi poveri e di passaggio, spesso in quartieri fuori mano”. Soprattutto, l’environmental theatre è caratterizzato dall’eliminazione della divisione dello spazio tra attori e pubblico (Schechner, 1968), elemento spesso ricorrente nelle esperienze del teatro di ricerca, che peraltro riguarda tanto gli spazi al chiuso, quanto, e a maggior ragione, quelli all’aperto. Del resto, nel Novecento gli spazi alternativi sono divenuti un punto di riferimento per quegli uomini di teatro i quali, in virtù di un rifiuto dell’ordinario assetto spaziale ed organizzativo canonico del teatro all’italiana, “frontale, distanziante, immodificabile”, sono stati indotti “ad abbandonare i vecchi edifici teatrali ma non tanto per entrare in edifici teatrali nuovi” – è questo il dato significativo – “quanto per dedicarsi all’uso o al riuso di spazi non teatrali: capannoni, magazzini, garage, cantine, chiese sconsacrate; e poi luoghi aperti: piazze, strade, cortili, etc.” (De Marinis, 2000, p. 44).

La distinzione proposta da Schechner (1968) tra lo “spazio totalmente trasformato” e lo “spazio ‘lasciato come si trova’” (ivi, p. 44), consente di interpretare il rapporto tra performance e ambiente fisico (e sociale). Si tratta di una sorta di continuum sul quale si situano non diversi tipi di spazio ma differenti modalità nel loro uso, anche se è innegabile che “una certa modalità d’uso teatrale di uno spazio non teatrale dipende molto, anche se non soltanto, dalle caratteristiche di questo spazio. Ed ecco, allora, che gli “spazi trovati” saranno in genere ambienti e luoghi (al chiuso e all’aperto) più o meno fortemente marcati e strutturati dal punto di vista architettonico e/o urbanistico: l’interno di una chiesa, la sala o il cortile di un palazzo antico, un chiostro, una piazza, una strada” (De Marinis, 2000, p. 45). Tra questi luoghi, però, vi sono oggi anche gli spazi industriali periferici in disuso, “luoghi dell’archeologia industriale, come le vecchie fabbriche”, cioè spazi fortemente connotati simbolicamente, come ad esempio il Lingotto di Torino, usato da Luca Ronconi nel 1991 (ibidem). Gli “spazi trasformati”, invece, vengono modificati, e devono pertanto essere modificabili, ovvero “il più possibile nudi, spogli, neutri: un capannone industriale, una palestra, un garage, una soffitta, una cantina etc., ma anche lo stanzone d’un palazzo” (ivi, p. 46) (3). Gli esempi riportati da De Marinis sono in questo caso “le salette di Opole e di Wroclaw in cui Grotowski ha allestito i suoi ormai mitici spettacoli degli anni ’60” (ibidem).

3.Teatralizzazioni contemporanee

Per individuare gli spazi “trovati” e/o “trasformati” non si deve necessariamente ricordare l’opera delle avanguardie del secondo Novecento – pur essendo senz’altro indispensabile dal punto di vista storico – ma basta gettare uno sguardo alla realtà attuale delle nostre città. Questi luoghi possono essere rinvenuti in varie zone, connotate sempre, però, da precise caratteristiche tali da definire il frame (Goffman 1974, trad. it. 2001) della proposta culturale che in esse è dato ritrovare e, conseguentemente, quello dell’organizzazione dell’esperienza dello spettatore. Tutti gli spazi, del resto, hanno le proprie convenzioni sociali e culturali, poiché alla cornice fisica del luogo si aggiunge quella dell’interazione tra i soggetti che lo usano. Nei teatri, dunque, vigono particolari convenzioni artistico-estetiche e “istituzionali” (Becker, 1982, trad. it. 2004; De Marinis, 1982; Tota, 1997), determinate dai codici impiegati nella comunicazione teatrale e da particolari condizioni prossemiche, le quali suggeriscono il modo in cui comportarsi nello spazio in cui ci si trova, e soprattutto comunicano – o, più precisamente, meta-comunicano – una particolare “definizione della situazione” (4).

Quello che più interessa sottolineare è l’utilizzo dello spazio teatrale alternativo nei termini di un dialogo con l’ambiente urbano circostante. Molti degli esempi fino ad ora citati mostrano quale tipo di relazione possa esistere tra una ex fabbrica, come il Lingotto torinese oppure come il vecchio stabilimento della Mira Lanza, sede oggi del Teatro India di Roma (“Luogo scenico alternativo al teatro all’italiana” (5)), e l’area adiacente, frutto di ripensamenti culturali e urbanistici che evidenziano uno scarto con la città-consumo, oggi esemplificata dal centro storico riqualificato – eccezion fatta per gli interstizi cui già si è accennato – e dai centri commerciali. Alcune di queste iniziative rientrano in progetti culturali e sociali più o meno rilevanti, sostenuti da istituzioni locali, quali ad esempio i Comuni, con finalità di riqualificazione sociale e funzionale di aree periferiche delle città. Anche i Teatri Stabili si impegnano in simili iniziative, alcune permanenti, come il già citato Teatro India di Roma, altre volte legate a proposte particolari, come Arrevuoto, progetto del Teatro Stabile di Napoli, realizzato a partire dalla stagione 2005/2006 e “dedicato agli adolescenti dei quartieri limitrofi e del centro storico della città” (6). In entrambi i casi si ha a che fare con un diverso uso dello spazio metropolitano. In particolare, nel caso di Arrevuoto, l’idea del progetto è stata, tra le altre, quella di utilizzare l’Auditorium di Scampia, quartiere periferico di Napoli, che non è uno spazio “trovato” o “trasformato”, ma si trova in una zona la cui collocazione rispetto alla città è marginale, quindi ben distinta dal tipo di fruizione che è dato riscontrare nei teatri del centro; non a caso, il progetto considerato ha una valenza sociale che lo qualifica in modo chiaro.

Il caso di Napoli, pur non essendo generalizzabile, può rappresentare in modo abbastanza chiaro l’articolazione dell’uso degli spazi per lo spettacolo nelle zone di una città. Nel centro storico di Napoli è dato ritrovare sia i teatri storici tradizionali (il San Carlo, su tutti) che gli spazi alternativi, questi ultimi sia “trovati” che “trasformati”. Alcuni spazi sono stati trasformati salvaguardando alcune peculiarità architettoniche, come il Lanificio 25, un vecchio stabilimento per la produzione di lana (l’archeologia industriale), oppure rendendo polifunzionale uno spazio modificabile come nel caso del Trip, dotato, tra gli altri ambienti (dedicati a varie attività culturali quali esposizioni, libreria, cineforum, ecc.), di una sala per dibattiti o “piccole opere teatrali” (7). Nei due casi appena citati, il teatro non è l’attività principale, ma solo una delle varie ed eventuali iniziative proposte, segno di un’apertura del mercato teatrale ad altre forme di consumo culturale, connessa sia all’uso alternativo degli ambienti che ad una necessità economica (Gallina, 2005). Quello della Sala degli Angeli dell’Istituto Suor Orsola Benincasa è invece lo spazio “trovato” e affascinante di una antica chiesa sconsacrata usata occasionalmente per spettacoli teatrali. D’altronde, e non a caso, la pratica di “teatralizzare” le vecchie chiese è ben nota e diffusa, forse perché tali strutture sono di per sé teatrali in termini di distribuzione dello spazio (8).

Se la suggestione di queste varianti dello spazio teatrale – incastonate nel cuore di un insediamento antichissimo e suggestivo di per sé – è degna di nota, non meno significative sono le scelte effettuate nei quartieri residenziali o periferici. Ad esempio La Sala Ferrari, “un vecchio garage completamente trasformato in un ambiente sobrio ma curato fin nei dettagli”, aperto a molti generi di arte e spettacolo, situato nel quartiere residenziale del Vomero (9). Spazi remoti e caratteristici sono invece quelli scelti per “Teatri di Napoli”, “un progetto artistico teatrale permanente cui il Comune di Napoli ha dato impulso nel 2001, individuando luoghi e spazi metropolitani dove poter far nascere vere residenze teatrali” (Marsano, 2004). Tra le strutture allora coinvolte figuravano il Teatro Area Nord (Piscinola), il “Teatro del Museo Laboratorio Casa dei Bambini” (Zona Ponticelli), la “Masseria Luce” (San Pietro a Patierno) ed il “Granile delle Arti” (San Giovanni a Teduccio), tutti spazi periferici o comunque decentrati: “l’ipotesi – già contenuta nelle linee di programma dell’Amministrazione Comunale di Napoli – prevedeva un forte intervento sulle aree periferiche della città per sottrarle al degrado e riequilibrare il rapporto centro/periferia” (ibidem).

Occasioni particolari come i festival, inoltre, consentono di offrire uno spettacolo fuori dall’ordinario, e quindi fuori dallo spazio ordinario ma anche dal frame consueto del teatro, come nel caso del Napoli Teatro Festival Italia, in particolare con le performance del progetto intitolato L’Attesa.

Un ufficio postale, una banca, una fermata dell’autobus, ma anche il foyer di un teatro e una banchina del porto diventano luoghi del Festival. Non saranno palcoscenici, non si reciterà nel senso usuale del termine. In questi luoghi accadranno dei dialoghi teatrali, o per meglio dire: tra i mille dialoghi che ogni giorno persone in attesa scambiano tra loro, alcuni saranno dialoghi teatrali [...] Intorno a chi, in una fila, aspetta il proprio turno, la realtà può apparire come uno spettacolo teatrale, chi è a fianco può essere un attore o un cittadino che ci mostra involontariamente un po’ della sua vita reale (10).

Lo spazio urbano, dunque, diventa teatro della vita quotidiana in un senso straordinariamente ambiguo, sfruttando proprio quell’ambiguità caratteristica della vita cittadina, con il suo “carattere mutevole ed imprevedibile”, che spesso rende difficile interpretare correttamente quanto accade sotto i nostri occhi (Mela, 2006, p. 261). La città diventa, in questo senso, uno spazio “trovato”, nel quale agli attori, o performers, tocca “interpretare l’environment” (Schechner, 1968, p. 54), cioè tentare di usare lo spazio così com’è, con i suoi vincoli fisici – e sociali, trattandosi di uno spazio pubblico – e tutta la sua imprevedibilità. Ai passanti, invece, spetta l’interpretazione di quello che sta avvenendo: è realtà o finzione? Se non si trattasse di un luogo qualsiasi della città, probabilmente ciò non creerebbe problemi.

4. Conclusioni

L’uso dello spazio, come si diceva, non è neutrale, e l’organizzazione funzionale ed estetica dei teatri e delle città lo dimostra. Nei luoghi teatrali alternativi, le pareti spoglie, o l’esibizione della struttura della scena che evidenzia la “finzione teatrale” (Schechner, 1968, 45), e per di più la loro ubicazione inusuale che fa dimenticare il teatro-simbolo, contrasta quella sorta di “feticismo” della messa in scena che ad esempio nasconde le mura del fondale del palco con sontuose scenografie, in modo simile a quel “feticismo della merce” attraverso il quale, secondo Marx, “il denaro e il mercato calano un velo, ‘mascherano’ le relazioni sociali tra le cose” (Harvey, 1990, trad. it. 2002, p. 129). Del resto, nei teatri tradizionali vi è una rigida separazione degli accessi per il pubblico e per gli artisti, così, ancora secondo Schechner (1984, 122), “un espediente per separare la produzione delle merci dal loro commercio, è di nascondere tutti i preparativi agli acquirenti”. Molto spesso, invece, non è dato ritrovare questa separazione negli spazi teatrali alternativi, nei quali le relazioni sociali e di consumo che si instaurano sia tra gli artisti che tra il pubblico, possono essere molto differenti, più orizzontali e meno codificate, rispetto a quanto accade per la fruizione degli spettacoli in un teatro convenzionale.

Quanto detto finora impone anche delle riflessioni rispetto ai fenomeni di mobilità del pubblico, e dunque ai modi di appropriazione di determinate risorse culturali distribuite in modo non uniforme sul territorio. Decentrare l’arte – anche dal punto di vista economico, oltre che sociale e spaziale – significa agire sulle pratiche e sulle esperienze culturali delle persone, in modo da rendere vivibile (in tutti i sensi) non solo la città ma anche quella parte culturale – sempre più significativa – della sua offerta di servizi.

Note

(1) Si vedano in proposito anche i risultati di ricerche condotte sui diversi modi di percepire la centralità o i confini degli spazi urbani, nonché la rilevanza degli elementi simbolici nelle città, in Mela, Belloni, Davico (2000, cap. 3).

(2) Se non altro, ciò è dovuto al fatto che tali spazi sono quasi sempre piccoli – a volte non raggiungono i 100 posti – e pertanto non si rivolgeranno mai ad un pubblico ampio, il che ovviamente incide sulla loro programmazione. Non potendo attirare spettatori con nomi e titoli di richiamo, la loro vocazione sarà, per necessità che si fa virtù, più culturale che commerciale. Inoltre, proprio per questo, la loro offerta sarà mediata più da una rete di conoscenze che dalla pubblicità.

(3) Per approfondimenti sull’”uso dello spazio quale elemento drammaturgico” e in particolare sulla “drammaturgia dello spazio”, si rimanda ancora a De Marinis (2000, cap. 1).

(4) Su questo concetto, tralasciando i moltissimi riferimenti filosofici e sociologici, si rimanda comunque a Goffman (1974, trad. it. 2001).

(5) http://www.teatrodiroma.net/adon.pl?act=doc&doc=1157.

(6) http://www.teatrostabilenapoli.it/Archivio/stagioni-passate/archivio-2009-2010/progetti-e-laboratori/arrevuoto.

(7) http://www.triplanificio25.it/.

(8) Solo per citare un aspetto, è evidente che la disposizione dell’altare è molto simile a quella di un palcoscenico.

(9) http://www.salaferrari.com/main.asp.

(10)www.teatrofestivalitalia.it/Napoli_Teatro_Festival_Italia_L_Attesa_

tra_realta_e_finzione_la_citta_diventa_palcoscenico-1530.2348.7.html

Bibliografia

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