2011-07-01

1. Cos’è l’architettura dell’informazione (1)

Più che una disciplina a sé stante, l’architettura dell’informazione costituisce un sapere di confine che si muove in modo complesso fra discipline più classiche come la bilblioteconomia, la linguistica e l’architettura, e discipline più nuove come la scienza e la teoria dell’informazione, l’ergonomia, l’information retrieval.

Di questo sapere di confine sono state date via via diverse definizioni, anche molto eterogenee fra loro, a dimostrazione del suo carattere polimorfo. Ecco quelle che fornisce l’Information Architecture Institute, l’associazione internazionale di riferimento per la comunità degli architetti dell’informazione:

The structural design of shared information environments.

The art and science of organizing and labeling web sites, intranets, online communities and software to support usability and findability.

An emerging community of practice focused on bringing principles of design and architecture to the digital landscape (Information Architecture Institute 2008).

Come si vede soltanto le ultime due definizioni fanno esplicito riferimento al web; la prima parla invece di spazi informativi condivisi nella loro totalità. In effetti, possiamo considerare questa prima definizione quella più ampia e completa, tale da abbracciare anche le altre due che ne costituiscono una sorta di declinazione più specifica.

Se infatti l’architettura dell’informazione è nata inizialmente come trasferimento-adattamento di saperi tradizionali (architettura, biblioteconomia, organizzazione della conoscenza) alla progettazione per il web, oggi questo campo si estende a tutti gli ambienti informativi condivisi. Le nuove frontiere del web e l’ubiquitous computing (noto anche come ambient intelligence o internet delle cose)(2) rendono infatti sempre più sfumato il confine tra fisico e digitale: atomi e bit tendono sempre più a ibridarsi e contaminarsi. Inoltre, il sovraccarico informativo (information overload) che caratterizza la società contemporanea a tutti i livelli rende l’organizzazione dell’informazione un aspetto cruciale in tutti i settori della conoscenza, se si vuole garantire un’interazione uomo-informazione efficace e soddisfacente.

L’architettura dell’informazione è quindi un settore strategico nel design non solo di prodotti specifici (come siti web, intranet, software) ma anche nel design dei servizi e più in generale in tutti quei casi in cui l’usabilità e la trovabilità(3) dell’informazione costituiscono fattori chiave per l’esperienza d’uso (user o customer experience).

Ecco quindi che anche il museo – in quanto spazio informativo condiviso, luogo di interazione in cui si vive un’esperienza – si intreccia fortemente con i temi dell’architettura dell’informazione, e ne costituisce senz’altro un importante campo di applicazione.

2. Il problema della flessibilità: personalizzare l’esperienza di visita

Non amo troppo i musei. Ve ne sono di ammirevoli, ma nessuno è delizioso. [...] Davanti a me si sviluppa nel silenzio uno strano disordine organizzato. Sono preso da un orrore sacro. [...] Presto non so più che cosa sia venuto a fare in queste solitudini cerate, che ricordano il tempio e il salone, il cimitero e la scuola […] Ma ecco che qui l’occhio [...] nell’istante in cui percepisce, si trova obbligato ad ammettere un ritratto e una marina, una cucina e un trionfo, dei personaggi negli stati e posizioni più diversi (Valéry, in Eco 2010, p. 169).

Forse – prosegue ancora Eco – Valéry era di cattivo umore il giorno in cui ha scritto queste parole; tuttavia – nonostante la distanza temporale e l’evoluzione che il museo ha subito nel frattempo – le considerazioni di Valéry colgono un aspetto dell’esperienza di visita del museo che in molti casi permane ancora oggi.

“Oggi [...] il museo è diventato chiaro, solare, amichevole, accogliente, gaio, e quasi sempre la distribuzione delle sale è tale da favorire il rapporto tra l’opera e il suo contesto. Ma non abbiamo ovviato alla terza caratteristica, anzi si va a visitare un museo proprio perché esso è per definizione vorace” (Eco 2010, p. 170). Questa voracità del museo, in quanto raccolta spesso eterogenea di opere, fa sì che ancora oggi, per quanto accolto da un’atmosfera più amichevole, il visitatore si senta spaesato, sopraffatto dalla enorme quantità di opere, stanze, percorsi. Quante volte anche a noi è capitato di entrare occasionalmente in un museo e di provare – in assenza di un obiettivo specifico o di una preventiva pianificazione della visita – quello stesso senso di disorientamento descritto da Valéry?

Per quanto ben curata, l’organizzazione delle opere e la loro contestualizzazione non sarà mai tale da soddisfare tutte le diverse tipologie di pubblico e le diverse esigenze. L’information seeking behavior (settore di indagine che esplora il comportamento dell’uomo nella ricerca dell’informazione) ci insegna infatti che individui diversi attuano strategie di ricerca differenti perché hanno bisogni e obiettivi informativi differenti; anche lo stesso individuo, in tempi diversi, adotta strategie differenti perché lo scopo della ricerca è differente. Così, l’architettura dell’informazione sostiene che un buon sistema informativo (e da questo punto di vista anche il museo lo è) dovrebbe essere flessibile, capace cioè di adattarsi a questa pluralità di comportamenti di esplorazione o ricerca messi in atto dal pubblico sotto la spinta delle varie esigenze (Bates 2002; Resmini e Rosati 2011, cap. 6).

3. Atomi e bit: due facce della stessa medaglia

Il museo ospita artefatti che per ragioni temporali, culturali e artistiche possiedono una natura intrinsecamente complessa: sono cioè sfaccettati, dotati di molteplici significati e passibili di modalità di lettura e fruizione molto diverse in rapporto ai diversi tipi di pubblico e obiettivi. Di conseguenza, è importante che il museo non riduca questa complessità. Ciò significa trasformare questa stratificazione in varietà, permettendo a ciascuno di ritagliarsi un’esperienza di visita su misura, consentendo la partecipazione attiva del pubblico, stimolando la sfera emotiva e perfino quella ludica; spostando in definitiva l’enfasi dalla conservazione-esposizione all’interazione.

Neil, Philip, e Wendi Kotler individuano sei diversi tipi di esperienza museale: ricreativa, socializzante, di apprendimento, estetica, celebrativa, orientata a un tema o scopo specifico (issue oriented), emozionante (enhancing – Kotler et al. 2008, p. 303). Al di là delle specifiche tassonomie (per certi versi sempre limitative), questo e altri schemi sottolineano (in accordo con l’information seeking behavior) che non esistono utenti ma persone, le quali sono diverse l’una dall’altra, e hanno obiettivi diversi che determinano altrettanto diversi modelli di fruizione: alcuni vogliono ammirare dal vivo il capolavoro visto a lungo nei libri, altri ricercano emozioni, altri ancora desiderano percorrere i fili che legano artisti, opere o culture differenti(4). Un museo flessibile dovrebbe essere in grado di soddisfare tutte queste esigenze.

D’altra parte, la disposizione dei reperti e delle opere d’arte del museo è inevitabilmente limitata da vincoli fisici: ogni pezzo può essere in un posto solo, e l’ipotesi di clonare uno o più item per collocarli simultaneamente in più luoghi non è ovviamente praticabile. Come garantire allora questa flessibilità nel museo? Il digitale, e il concetto di rete e ipertesto in particolare, ci vengono in soccorso: non possiamo modificare i mattoni ma possiamo adattare e rendere flessibili i percorsi, i collegamenti fra un’opera e l’altra. Lavorando sui bit anziché sugli atomi. In fondo anche i libri di una biblioteca hanno una collocazione univoca, ciononostante le strategie per raggiungerli sono molteplici (soggetto, classe, vicinanza a libri di argomento simile ecc.). Metadati e contenuti integrativi informatizzati consentono di svincolare l’opera dai suoi vincoli spaziali e di estenderne la fruizione ben oltre i limiti fisici della sala, delle targhette e della segnaletica fissa. Come in un ipertesto, appunto, i nodi (i pezzi del museo) sono univoci (per identità e collocazione) ma i percorsi per collegarli (gli itinerari compiuti dal pubblico) possono essere molteplici, così come pure i livelli di lettura. Come certe architetture di Borges o Calvino, museo e opera si stratificano, divengono universi mobili e fluidi, capaci di stimolare e accogliere molteplici opzioni di visita e di esperienza, di cui soltanto una (piccola) parte è quella prevista (costretta) dall’ordine fisico delle sale e delle opere.

Così, questo strato informativo fatto di bit, sovrapposto a quello fatto di atomi (Figura 1), consente attraverso dispositivi mobili (già posseduti dal pubblico o forniti dal museo) o attraverso postazioni fisse (totem, schermi, touch-screen) un’esperienza arricchita e personalizzata di visita, che ciascuno può costruirsi o vedersi suggerire in base ai propri gusti, vincoli, obiettivi.

Figura 1.



Associando oggetti e luoghi del mondo fisico a una loro controparte digitale è possibile svincolare i primi dai loro limiti naturali e garantire un’interazione arricchita uomo-ambiente (Fonte: MIT, SENSEable City Laboratory: WikiCity Concept).

Portatili, ridotti, non invasivi, i palmari intrecciano inscindibilmente esperienza fisica e spazio informativo digitale, funzionando come sorta di block-notes su cui il visitatore tratteggia e annota il proprio percorso individuale mentre si muove nello spazio museale.

Uno degli esempi più ricchi è l’applicazione gratuita del MoMA di New York (Figura 2): scaricabile sul proprio dispositivo mobile, la guida comprende un ricco apparato informativo relativo alle oltre 3000 opere della collezione, di cui sono inoltre disponibili dettagli fotografici ad alta risoluzione. La connessione wi-fi del museo consente di individuare la posizione del visitatore nelle sale, offrendogli una selezione di contenuti specifici in relazione alla sua collocazione nello spazio. Egli può così scegliere tra diverse opzioni di tour all’interno delle gallerie, accedere a commenti audio o video, interviste ai curatori, video-documentari, o ancora visualizzare un database di tutte le opere e gli artisti e un indice terminologico. Il fruitore ha inoltre a disposizione informazioni su orari e accessibilità del museo, e un calendario che lo tiene al corrente su esposizioni in corso e future, sugli eventi e sulle proiezioni. Non solo: egli può scattare e condividere fotografie, oltre che creare una personale playlist di brani musicali per accompagnare la propria visita.

Figura 2



L’applicazione per dispositivi mobili del MoMA permette di personalizzare l’esperienza di visita, andando incontro alle molteplici esigenze e strategie di comportamento del pubblico, dotando il museo di quella flessibilità tipica degli ambienti ipertestuali.

Questa come altre applicazioni, il cui numero è in continua crescita (in Europa, tra le tante, ne troviamo alla Tate Modern Gallery di Londra, al Louvre di Parigi e ai giardini di Versailles; in Italia agli Uffizi e ai Musei Vaticani di Roma), abbandonano completamente la narrazione lineare e preordinata, basata una proposta di senso univoca, su un percorso preciso e strutturato che il visitatore deve seguire per poter aver pienamente accesso al significato delle opere. A venir riconosciuta e pienamente valorizzata è quella che Baxandall (1995, p. 25) definisce “la voglia dell’osservatore di essere attivo nello spazio tra il cartellino e l’oggetto”: al fruitore è offerta una ricchissima serie di informazioni e una rete di possibili tracciati tra i quali è libero di scegliere, esplorando autonomamente e in base alle proprie esigenze i materiali, e attribuendogli un senso a partire da percorsi interpretativi individuali.

Concretamente un museo adattivo dovrebbe permettere di

•    personalizzare il percorso di visita (in base al tema, al livello di approfondimento che si desidera, al tempo a disposizione);

•    ricevere consigli e correlazioni su misura (il meglio di, opere correlate a quella corrente e così via);

•    ritrovare e ripercorrere facilmente tragitti già compiuti (da sé stessi o da altri).

Più in generale, il museo dovrebbe soddisfare queste logiche:

•    fornire più modalità di accesso (percorsi per argomento o tema, per autore o periodo, ricerca diretta di un item specifico per conoscerne la collocazione, indice analitico, mappa, scorciatoie ecc.);

•    fare in modo che queste modalità soddisfino i principali modelli mentali e strategie di information seeking del pubblico (known-item seeking, exploratory seeking ecc.);

•    fornire identità e orientamento (dove sono? cosa posso trovare qui?) soprattutto ai nuovi utenti;

•    mostrare le novità e fornire scorciatoie agli utenti abituali;

•    offrire un servizio globale, che tenga conto delle esigenze pratiche che possono sorgere nel visitatore (informazioni su orari e attività, collocazione dei servizi, accessi per disabili ecc.);

•    creare occasioni di socialità, favorire le relazioni e gli scambi tra i visitatori.

4. Il museo come “palinsesto mnemonico”

I luoghi sono usati come cera. Essi serbano gli strati di una scrittura che è possibile cancellare, scrivere e riscrivere più e più volte, come se si fosse perennemente alle prese con la stesura di una minuta. Sono la sede di un palinsesto mnemonico. […] il site-seeing cinematografico, al pari di quello museale, disegna mappe particolarmente mobili: le sue topografie sono veri e propri tracciati emozionali. […] Per certi versi, allora, i sempre più numerosi intrecci filmici tra gallerie e sale cinematografiche sono riusciti a reinventare […] parti del processo immaginario che, nel 1947, André Malraux chiamò musée imaginaire: un’idea sconfinata di produzione fantastica che, nella traduzione inglese, si è trasformata in «museum without walls» (Bruno 2009, pp. 20, 22, 32).

È possibile spingerci ancora oltre nella flessibilità, ipotizzando non solo percorsi pensati dall’alto (top-down) da esperti o storici dell’arte (i progettisti o gestori del museo), ma anche percorsi creati dal basso (bottom-up) dagli stessi visitatori.

Se le interazioni del pubblico con l’ambiente-museo sono preservate in qualche forma, diviene allora possibile immaginare un loro recupero e riuso per arricchire e personalizzare ulteriormente l’esperienza di visita. Le logiche sono le medesime illustrate sopra, ma con una sostanziale differenza: i percorsi non sono in questo caso progettati a priori centralmente da un esperto, ma costruiti direttamente dal pubblico secondo meccanismi simili a quelli dei social network e del web 2.0 in genere. In questo modo, modelli di interazione ricorrenti o di particolare interesse possono essere salvati a futura memoria e ripercorsi (Figura 3). Si possono immaginare due livelli di condivisione: uno più generale o pubblico e uno più ristretto o personale.

Figura 3.



Un esempio di tracciamento e riuso di modelli di comportamentali nel settore della danza (Source: Synchronous Objects, Synchronous.osu.edu).

Nel primo caso, pattern comportamentali ricorrenti possono venire impiegati per monitorare il reale comportamento del pubblico ed eventualmente correggere o integrare i percorsi e pattern stabiliti dall’alto (una forma di user centered design o design partecipativo in tempo reale che attraverso il monitoraggio continuo dell’esperienza d’uso consenta di mantenere quanto più allineati possibile il modello progettuale top-down con il modello d’uso effettivo bottom-up).

Nel secondo caso, un singolo o un gruppo può decidere di “registrare” il proprio percorso su misura per finalità didattiche, per condividerlo con qualcun altro (anche in tempi successivi) o per poterlo ripercorrere in un secondo momento.

I sistemi di bookmarking previsti dalle guide su palmare consentono di conservare un ricordo tangibile della propria esperienza di fruizione, salvando e rendendo accessibili sul web, la traccia dei percorsi effettuati, le opere visualizzate e informazioni contestuali, oltre che eventuali commenti annotati nel corso della visita.

La Citè des Sciences di Parigi ha creato un servizio chiamato Visite+, con lo scopo di prolungare la relazione con il visitatore in un continuum che prende in carico i tre tempi dell’esperienza di visita: quello precedente all’ingresso nel museo; quello all’interno del museo (la visita vera e propria); quello successivo (Figura 4).

Nel museo sono a disposizione dei punti di accesso interattivi attraverso i quali il visitatore può annotare su un cyber-taccuino il proprio percorso. Tornato a casa, collegandosi a una sezione personale sul sito, egli può recuperare i contenuti visualizzati nelle sale del museo, accedere a risultati di giochi e test, e proseguire la visita con ulteriori approfondimenti. Ancora, egli può esprimere pubblicamente i propri commenti e il suo parere in merito all’esposizione, e creare una rete di scambi e condivisione con gli altri utenti-visitatori.

L’esperienza di visita, da evento puntuale e circoscritto, si prolunga nello spazio e nel tempo, permettendo una relazione insieme personale e dialogica, continuativa e costantemente rinnovabile con l’istituzione museale.

Figura 4.

La piattaforma Visite+ della Citè des Sciences di Parigi consente ai visitatori di pianificare la propria visita, registrare e annotare il percorso all’interno del museo, e recuperarlo successivamente alla visita stessa. Nell’immagine un esempio di percorso con i relativi touchpoint che consentono la registrazione e l’annotazione (fonte: Cite-sciences.fr).

Questo intende Giuliana Bruno quando parla dei luoghi come palinsesti mnemonici. I flussi e le interazioni delle persone all’interno degli ambienti trasformano effettivamente questi ultimi in testi, in “architextures”, paesaggi e mappe emozionali: allo spazio fisico viene quindi a sovrapporsi uno spazio esperienziale frutto dell’interazione del pubblico con lo spazio medesimo. In questo senso, le persone agiscono come penne: esse scrivono e riscrivono di continuo (come in un palinsesto, appunto) le storie delle loro relazioni con l’ambiente, modificandolo. E ciò avviene indipendentemente dal fatto che queste scritture vengano salvate esplicitamente in qualche forma o lasciate al loro destino – esse non sono infatti mai del tutto volatili, qualche loro traccia, più o meno visibile, è sempre destinata a restare.

Tanto che la stessa architettura ha coniato il concetto di pace layering (lett. ritmo di stratificazione). Questa teoria, proposta inizialmente da Stewart Brand, sostiene che gli edifici apprendano, non siano cioè entità stabili e definite una volta per tutte ma si modifichino in seguito all’azione dell’uomo e dell’ambiente. E che tale azione avvenga con velocità differente in rapporto a differenti “strati” dell’edificio stesso: la struttura, ad esempio, si modifica in modo più lento rispetto alla superficie esterna e questa, a sua volta, in modo più lento rispetto al layout interno e all’arredamento (Brand 1994, 13). Ciò fa sì che ogni edificio (ma anche ogni luogo) si configuri come un sistema complesso in cui gli strati che evolvono più rapidamente svolgono un ruolo propositivo e innovativo, quelli che evolvono più lentamente svolgono un ruolo di conservazione e stabilizzazione. Questo modello è stato esteso e adattato all’architettura dell’informazione per il web da Campbell e Fast (2006), e da  Merholz (2009). Anche i sistemi informativi, al pari degli edifici, sono sistemi complessi composti di diversi livelli o strati che evolvono con velocità e modalità differenti: i tag e i contenuti generati dagli utenti dal basso costituiscono lo strato di evoluzione più rapida, mentre i sistemi di navigazione e i contenuti costruiti dall’alto dai progettisti o dagli esperti di settore costituisco i livelli più stabili. Questi strati tuttavia interagiscono fra loro in modo tale che l’uno controbilancia l’evoluzione dell’altro, contribuendo a creare quello stato di perenne equilibrio precario tra ordine e disordine tipico dei sistemi complessi.

Estendendo anche al museo la teoria del pace layering possiamo stabilire la serie di corrispondenze illustrate in Tabella 1.

Tabella 1. La teoria del pace layering (ritmo di stratificazione) applicata al museo.

Così, se lo spazio fisico del museo (e la disposizione delle opere al suo interno) è relativamente stabile e destinato a modificarsi lentamente nel corso del tempo, lo spazio esperienziale del pubblico (le molteplici logiche di esplorazione e interazione) è estremamente fluido e sottoposto a continua evoluzione nel tempo. Conservare (attraverso il digitale) questo strato fatto dalle storie scritte quotidianamente dalle persone può senz’altro contribuire a rendere il museo un sistema più adattivo ed elastico, capace di accogliere e stimolare percorsi di visita alternativi a quelli imposti dall’alto dai vincoli spaziali o culturali, avvicinando effettivamente il museo contemporaneo all’idea del “museo immaginario” o senza pareti preconizzato da Malraux.

Grazie al digitale il museo si allarga oltre le proprie mura, conferendo un respiro più ampio e inedito a esperienze già consolidate. Così, una volta terminata la visita, il MoMA invita i visitatori a condividere, annotandola su un pezzo di carta, la propria storia, una traccia della propria personale e irripetibile esperienza di visita. Il risultato è una serie di post-it che affollano sia le pareti nell’atrio del museo che una parete virtuale sul sito web, dando origine a un guest-book proliferante e senza fine, dove si sedimentano e dialogano tra loro le storie e le memorie dei visitatori (Figura 5).

Figura 5.

La bacheca “I went to MoMA and…” con i commenti dei visitatori: un esempio di dialogo fra progettisti, ambiente e utenti. (Fonte: Moma.org/iwent/).

La voce dei fruitori, che trova sempre più spazio in blog e bacheche virtuali, è consapevolmente personale e soggettiva, fatta di ricordi e impressioni, di scherzi e provocazioni, di dubbi e domande, e si affianca a quella imparziale e informativa del curatore, rendendo più ricca e polifonica la storia relativa all’esibizione.

Quella che si deposita è una conoscenza passibile di influenzare e riorientare in senso forte i percorsi dei futuri visitatori: non a caso molte delle osservazioni lasciate dai visitatori si connotano in senso pragmatico, concentrandosi sui luoghi e sulle utilità, sul funzionamento e sulla godibilità dei servizi più che su nozioni teoriche e su commenti relativi alle opere in sé (Marota 2006, pp. 336-337).

5. “L’ombra d’informazione”

An enormous quantity of user-generated content exists on the Internet tied to nearly every product. Virtually everything made or grown has been reviewed, discussed, photographed, mocked, praised, prodded, measured, disassembled, and hacked. Until the Internet, little of this social life was available; now there is a flood.

The digitally accessible information about an object can be called its information shadow. Nearly all industrially created objects have rich information shadows, even if those shadows are invisible to their owners and users.

[…] Everyday objects have been separated for a long time from their information shadows, as Peter Pan was from his actual shadow. The complexity of finding, organizing, and accessing this information divided the world of objects and the world of information shadows.

[…] For consumers, ubiquitous computing attaches the information shadow to the object, like Wendy does to Peter Pan’s shadow (Kuniavsky 2010, pp. 71-73).

Due questioni rimangono a questo punto aperte: come raccogliere il patrimonio di storie generate dai visitatori attraverso la loro interazione con il museo? E come farlo dialogare con le logiche progettuali (classificazione e disposizione delle opere, percorsi, segnaletica) pensate centralmente (top-down) dai progettisti e gestori del museo stesso?

L’ubiquitous computing consente con relativa facilità di tracciare e registrare le azioni delle persone all’interno di uno spazio fisico, e di monitorare, interrogare e manipolare in tempo reale questi dati. Per costruire un ambiente intelligente, tuttavia, esistono due approcci:

1.    uno esplicito, dall’alto, più sistematico ma anche più oneroso in termini di tempi e costi;

2.    uno implicito, dal basso, per certi versi meno preciso ma più economico e veloce da mettere in piedi.

Il primo consiste nel dotare oggetti e ambienti di identificatori elettronici univoci (come RFId, QR code e simili) che consentono di legare un item alla sua controparte digitale nella “nuvola”.

Il secondo consiste nello sfruttare le informazioni (relative a oggetti e interazioni) già presenti in rete – quella che Kuniavsky (2010) definisce “ombra d’informazione” (information shadow) – (Figura 6).

As the information shadows become thicker, more substantial, the need for explicit metadata diminishes. Our cameras, our microphones, are becoming the eyes and ears of the Web, our motion sensors, proximity sensors its proprioception, GPS its sense of location. Indeed, the baby is growing up. We are meeting the internet, and it is us. [...] As more and more of our world is sensor-enabled, there will be surprising revelations in how much meaning – and value – can be extracted from their data streams. (O’Reilly & Battelle 2009).

Così, anche all’interno del museo, è possibile arricchire l’esperienza di visita ed estendere la vita di opere e luoghi ben oltre i vincoli spaziali sia associando ad esse contenuti digitali pensati ad hoc; sia sfruttando la loro ombra d’informazione – cioè selezionando, organizzando e rendendo accessibile le molteplici “annotazioni” già presenti in rete riguardo a quegli oggetti. E consentendo al pubblico di elaborare e arricchire ulteriormente tale “palinsesto” (Bruno 2010). In questo modo si ricuce quella frattura fra artefatto e informazione (quella prodotta dall’interazione dell’uomo con l’artefatto stesso), fra atomi e bit, fra l’oggetto e la sua ombra.

Questo è il motivo per cui, ad esempio, un catena come Walmart ha acquistato di recente la social media company Kosmix (Wal-Mart Stores Inc. 2011). Kosmix produce una piattaforma chiamata Social Genome che lavora proprio sull’ombra d’informazione. Social Genome, infatti, è in grado di estrapolare dalla nuvola sociale (status update, tweet, blog ecc.) le informazioni riguardanti uno specifico item (argomento, servizio o prodotto): il materiale così filtrato fornisce uno strato semantico aggiuntivo all’item medesimo (Rajaraman 2011).

Figura 6.

Un esempio di “information shadow”: l’uso (check-in) del social network georeferenziato Foursuqare nella città di New York durante la settimana, nelle varie ore del giorno e nei vari luoghi. (Fonte: Wall Street Journal, Graphicsweb.wsj.com/documents/FOURSQUAREWEEK1104/).

6. Conclusioni: co-design in un mondo scrivibile

In the language of today’s computer geeks, we could call [our culture] a “Read/Write” (“RW”) culture: [...] ordinary citizens “read” their culture by listening to it or by reading representations of it. […] This reading, however, is not enough. Instead, they [...] add to the culture they read by creating and re-creating the culture around them. [...] As MIT professor Henry Jenkins puts it in his extraordinary book, Convergence Culture, “[T]he story of American arts in the 19th century might be told in terms of the mixing, matching, and merging of folk traditions taken from various indigenous and immigrant populations.” (Lessig 2008, p. 28).

In fondo, il significato dell’etichetta web 2.0 è proprio questo: un sostanziale cambiamento nel modo in cui gli utenti partecipano nei processi comunicativi, culturali e di design; da consumatori passivi a produttori attivi. Il web sociale e collaborativo e gli user-generated content sono in effetti la manifestazione più tipica di una nuova cultura Read-Write.

Tuttavia, l’incontro del web 2.0 con l’ubiquitous computing e l’internet delle cose stanno creando un mutamento ancora più radicale: il passaggio dallo user-centered design e dal design partecipativo verso il co-design e il crowd-sourced design. L’utente non è più soltanto coinvolto nel processo progettuale e produttivo, ma diviene egli stesso designer. Come scrive Sterling (2006) gli utenti si trasformano in intermediari (wranglers), intervenendo direttamente nel processo produttivo attraverso il loro comportamento.

Una SOCIETÀ SINCRONICA genera miliardi e miliardi di traiettorie catalogabili, indagabili, tracciabili: schemi di progettazione, produzione, distribuzione e riciclaggio che sono conservati in forma estremamente dettagliata. Sono le microstorie delle persone in relazione agli oggetti [...] Queste microstorie informazionali sono soggette a sviluppi praticamente senza fine. Riuscire a sfruttare questo potenziale è una opportunità fondamentale e una sfida per il design di domani (Sterling 2006, p. 45).

Il web 2.0 (social network, user-generated content, web in mobilità) e la internet delle cose permettono di dare voce a queste storie (le storie delle nostre relazioni con i luoghi, l’informazione, le altre persone): non più destinate alla volatilità, queste microstorie si sedimentano in forma di bit, documentando e fornendo un feedback in tempo reale sui processi in cui siamo coinvolti (Figura 7).

Figura 7.

L’internet delle cose consente di dare voce alle nostre relazioni con i luoghi e gli oggetti che ci circondano. Queste diventano così storie documentabili e manipolabili in tempo reale, capaci di modellare (scrivere) l’ambiente stesso. (Fonte: Mediamatic.net/page/11944/en).

In questa prospettiva, si potrebbe pensare allora che il ruolo del designer (progettista, esperto di dominio ecc.) diminuisca, ma non è così. L’idea che l’architettura dell’informazione e tutti gli autori citati fin qui sostengono non è quella di un annullamento della figura del designer o della progettazione a tavolino di tipo top-down. È invece quella di vedere le architetture informative, i luoghi, i servizi e le stesse città come ecosistemi, cioè come sistemi complessi in cui i processi top-down possano venire bilanciati da quelli bottom-up e viceversa, in un dialogo senza fine.

Il progettista, in questo senso, è più un abilitatore, il creatore delle regole del gioco di un sistema aperto che verrà poi definito e modellato dal fruitore. Nel caso specifico del museo, questo significa fornire al pubblico i pezzi della costruzione (le opere e i metadati), una serie di regole per combinarle e alcune ipotesi costruttive (i percorsi e la logica espositiva pensati a priori), lasciando tuttavia al pubblico la possibilità di costruire (a partire da quei pezzi e quelle regole) altri percorsi non previsti inizialmente. Significa in definitiva cedere controllo in cambio di opportunità, sfruttare l’intelligenza collettiva del pubblico per favorire l’emersione di modelli che – per quanto apparentemente bizzarri – possono tradursi in innovazione.

Consentire agli utenti di apporre i propri tag agli oggetti delle collezioni online può portare a disegnare percorsi del tutto inediti nel patrimonio museale, ridefinendone a fondo significati e valori. Così nel 2006, nei primi sei mesi in cui le collezioni del Powerhouse Museum di Sideney erano disponibili online, l’oggetto più visualizzato era il vestito indossato dalla star australiana Delta Goodrem. L’abito, non esposto nel museo “reale”, aveva assunto una tale visibilità grazie ai suggerimenti degli utenti del sito e dei fan della pop star, che avevano apposto una serie di tag per facilitarne il reperimento nei motori di ricerca (Chan 2007).

È evidente come a contare non sono più valori fissi e intangibili, legati all’eredità del passato, ma valori vivi e sentiti dalle comunità, come appunto la celebrità di una musicista contemporanea (Cameron 2008): gli oggetti diventano veri e propri punti di ingresso attraverso cui le voci e le storie delle persone entrano nel museo.

Mentre la fruizione delle opere si svincola da una proposta univoca di percorsi, attraverso queste pratiche vengono a formarsi vere e proprie comunità, che gestiscono in modo autonomo il proprio processo collaborativo: il Brooklyn Museum non solo permette agli utenti di apporre i propri tag, ma non interviene a regolare queste pratiche, lasciando che sia la comunità stessa a decidere la pertinenza delle classificazioni proposte, ed eventualmente a rimuoverle. Il tutto sotto la forma di un vero e proprio gioco, con tanto di punteggi e classifica tra i vari membri della community on-line.

Non sempre i risultati sono prevedibili: lo Smithsonian Institute, ad esempio, nell’aderire al progetto The Commons, ha reso pubblicamente disponibili le proprie immagini, sollecitandone l’utilizzo da parte di insegnanti, scuole e privati. Così, a partire da questi materiali, due studenti hanno realizzato, per un’esercitazione scolastica, una finta campagna promozionale per il museo, mettendo a confronto icone contemporanee del pop con personaggi storici. Queste immagini, dalla forte carica provocatoria (vengono immediatamente definite “historically hardcore”) hanno attirato molta attenzione su internet, ma non hanno invece trovato l’approvazione dei rappresentanti dello Smithsonian, i quali hanno imposto agli studenti la rimozione del logo dell’istituzione.

In alcuni casi i contenuti prodotti dagli utenti trovano spazio nelle esposizioni vere e proprie. In occasione della mostra fotografica “How we are. Photographing Britain”, che espone opere di grandi fotografi, ma anche cartoline e immagini di propaganda, La TATE Britain invita il pubblico a contribuire con le proprie foto: proposte tramite Flickr, esse vengono poi mostrate in uno slide show all’interno della galleria, mentre le migliori 40 entrano a far parte della mostra all’interno del museo. La storia della Gran Bretagna non è più tratteggiata da una voce unica e autorevole, ma da un insieme di voci che comprendono quelle del pubblico.

Note

(1) Gli autori hanno discusso e condiviso insieme l’intero lavoro. Tuttavia, E. Mandelli ha scritto il par. 3; A. Resmini i parr. 1, 2, 6; L. Rosati i parr. 4-5.

(2) “At the heart of ubiquitous computing is the idea that information is processed all around us in all sorts of everyday objects and activities for our use and consumption: it is a system-oriented vision where a constellation of closely related, participating items bridges atoms and bits” (Resmini & Rosati 2011, p. 57). “Going far beyond how we now define “computers”, the vision of ubiquitous computing […] is of information processing and networking as key components in the design of everyday objects [...] using built-in computation and communication to make familiar tools and environments do their jobs better. It is the underlying (if unstated) principle guiding the development of toys that talk back, clothes that react to the environment, rooms that change shape depending on what their occupants are doing, electromechanical prosthetics that automatically manage chronic diseases and enhance people’s capabilities beyond what is biologically possible, hand tools that dynamically adapt to their user (Kuniavsky pp. 3-4).

(3) Trovabilità è un neologismo nato come calco linguistico sull’inglese findability: indica la capacità di un item (informazione, risorsa, oggetto) di essere reperibile e fruibile. Cf. Morville (2005) e Findability.org.

(4) Nell’ambito dell’information seeking si distinguono due macro-strategie di ricerca dell’informazione: la known-item seeking, messa in atto da chi sa esattamente cosa sta cercando (può cioè specificare bene a parole l’item di cui ha bisogno); la exploratory-seeking, messa in atto da chi non ha un obiettivo specifico o non è in grado di descrivere con precisione cosa sta cercando. Sul tema, cf. Spencer 2006 e Bates 2002. Per una panoramica sui vari modelli e teorie di information seeking, cf. Fisher et al. 2005.

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