2014-05-07

Dio, Inti, non sai quanto bisogno avrei di te stasera. Ma mica dal blog. No, stasera, scusa ma del blog non me ne faccio una fava. Stasera avrei bisogno di te live.

Qui, in carne, piume di struzzo e ossa, nel mio microcosmo in zona Baghdad, con sotto negozi aperti venti ore al giorno, dal lunedì alla domenica, illuminato da lampade Flos e candele IKEA, e uora-uora scaldato dai Beatles (We can work it out), vicino a me, che sono lontana anche da me stessa, che non riesco a tenermi niente vicino, che sono più distruttiva di quei tritarifiuti che si vedono nei film americani, che cerco solo dolore, che lo attiro come le mosche, prigioniera di una maschera che forse mi sono cucita addosso dal secondo anno di asilo in poi. Che divento più feroce di una tigre. Che poi piango, senza nemmeno le lacrime, rabbiosa come un grizzly a dieta. Sconnessa come un elfo. Più furiosa di un troll e altrettanto spaesata (sto lavorando a un fantasy, perdonami).

E lo sai perché? No, certo che non lo sai. Se non te lo dico, come fai a saperlo? (Siamo anime gemelle, mica confidenti, noi altri due.) Ne avrei bisogno perché sono sola. Non da sola, ma sola. Da sola, more or less, lo son sempre stata, cresciuta in una casa così grande e figa e piena di alberi secolari e foglie di magnolia da raccogliere e sorelle adulte e una madre impegnata e un padre, beh, lasciamo perdere, che è meglio.

Essere da sola è normale, lo è sempre stato, è proprio grazie a quello che ho iniziato prima a leggere e poi a scrivere (per ascoltare qualcuno, per parlare con qualcuno). Ero da sola anche da sposata, intrappolata a far finta di fare la mega-manager, distante dal serafico (ma bellissimo) marito che mi ero scelta come lo è la Gegia da Guinett Parltrow. Solo che stasera, invece che essere da sola, mi sento sola.

E sento tutto il peso degli anni che il mio cuore dimostra e che sommati a quelli che ho fanno di me una vecchina da guinness. Hai ragione tu, Inti, noi i comandamenti non solo non li consideriamo, ma ce li mangiamo proprio. Barry canta “You’re the first, the last, my…” e io avrei voglia di piangere, ma non ho lacrime. Perché non ho più voglia di niente. No. Non di niente: di nessuno. Non ho più voglia di nessuno. Non ci credo (di nuovo) più. Non mi fido. Non mi piace. Non lo voglio. Stasera Inti, sono sull’orlo della zitellitudine. Ho capito che quello che credevo di volere non lo voglio e che quello che voglio mi faceva così paura da non aver mai avuto, fino a stasera, le palle per pensarlo. Credevo di volere una nuova famiglia, Inti, di aver voglia di costruire un nido.

Invece, Inti, il nido ce l’ho già. Ce l’ho sempre avuto. L’ho capito stasera, cucinando per mia madre, temporaneamente evasa dall’egoismo dell’ Uomo di Cro-Magnon. Il nido sono io. Il nido è la mia famiglia (Cro-Magnon a parte, che se potessi rinunciare ai suoi cromosomi lo farei subito. Sapessi dove firmare), quella da cui sono stata originata e cresciuta e quella che ho messo insieme con mio figlio, le persone che amo e i libri che scrivo, che leggo, che riscrivo. Il mio universo è su un albero, Inti, su cui ho impagliato una cosa che chiamo casa e su cui posso anche lasciar posare, ogni tanto, un uccello, ma non voglio che poi l’uccello da temporary diventi resident. E sai perché? Non perché non voglia prendermene cura, ma perché non ho voglia di sentirmi sola mentre ho pure qualcuno (qualcun altro) di cui dovermi prendere cura.

Ecco perché.

E questo è quanto.

Inti.

Ecco perché.

WUM

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