2013-04-07

di Ettore Maria Mazzola

Sebbene sia ben felice delle provocazioni di Romano (vedi post precedente), devo necessariamente esprimere i miei dubbi – o suggerimenti – atti a dare più credibilità a certe argomentazioni.

Chi mi conosce sa benissimo quanto io sia dalla parte di chi sostenga la necessità di ridare ai cittadini comuni la possibilità di esprimersi sulle realizzazioni urbanistico-architettoniche entro cui dovranno vivere; tutti sanno quanto io possa essere contrario alle presunte élite colte degli architetti che, parlandosi addosso ed autocompiacendosi, impongono la loro ideologia testandola su delle ignare cavie umane, quindi spero che capirete come queste mie critiche non vogliano essere distruttive del testo di Romano, ma piuttosto un suo completamento.

Il motivo principale della critica è che ritengo pericolosa la proposta di una sorta di tabula rasa della normativa edilizia e delle procedure vigenti in nome di una sorta di istigazione al “fai da te ciò che vuoi” … un modus operandi che, ritengo, piuttosto che presagire un miglioramento delle nostre città, sembra prefigurare un far west urbanistico architettonico degno delle peggiori periferie abusive.

Un grosso limite in questo approccio lo vedo anche nella sua difesa basata su discutibili indicazioni storiche questa pratica costruttiva libertaria.

Gli storici dell’architettura, e di conseguenza gli architetti di palato fino, tendono a considerare la formazione della città a partire dall’opera di Alberti e Rossellino a Pienza, mentre la vera coscienza urbanistica italiana si è sviluppata e consolidata molto prima, per celebrare la nuova istituzione dei Comuni all’indomani del feudalesimo, epoca in cui i “signori” realizzavano all’interno delle città dei castellari che nulla avevano a che fare col senso di città degli spazi condivisi, ma piuttosto si configuravano simboli arroccati della propria arrogante presenza bellicosa.

A testimonianza di ciò che dico, sottolineo come gli archivi storici italiani risultino stracolmi di Statuti, Regolamenti, Codici, Trattati, ecc. a partire dal tardo XII secolo (Siena, Vicenza, Città di Castello, Gubbio, Bologna, Perugia, Orvieto, Nocera Umbra, Verona, Pistoia, Parma, Viterbo, Ravenna, ecc.), documenti che dimostrano l’altissima concezione urbanistica degli italiani del medioevo, capaci di concepire e scrivere regole del vivere civile e del costruire nel rispetto degli altri. Se però andiamo a ritroso – sono anni che ci sto lavorando – troviamo che quelle regole, alcune delle quali sono riportate anche nel nostro Codice di Procedura Civile, sono riscontrabili in codici altomedievali e medievali arabi e bizantini [Trattato di Giuliano di Ascalone, sotto Giustiniano I (531-533), Trattato di Ibn Abd al-Hakam (767–829) al Cairo, Trattato di Ibn Dinar (827) a Cordoba, Trattato di Ibn al-Rami a Tunisi (circa 1350)] trattati che a loro volta si rifacevano ai codici costantiniani; ebbene quei codici e trattati, tramite la dominazione bizantina e araba si sono diffusi in tutto il Bacino Mediterraneo, completando un viaggio di andata e ritorno dall’Italia e restando in vigore, anche se non ne abbiamo tracce scritte, nel modo di costruire la città e relazionarsi urbanisticamente tra i suoi cittadini fino all’alba del Rinascimento.

Ciò vuol dire che le città sono – SEMPRE – state costruite in base a delle regole, sicuramente più snelle e logiche di quelle post-lecorbusieriane, e mai in nome del fai da te; o meglio, il fai da te è sempre stato ammesso, ma nel rispetto degli altri, perché un tempo vigevano le regole del vivere civile, del rispetto del bene comune, del rispetto del decoro urbano, ecc., tutte regole che la presunta “civiltà” contemporanea ha perduto.

Se vogliamo quindi riportare le città ad essere più armoniose, e i cittadini a realizzare in maniera più libera (nel rispetto altrui), bisogna prima risvegliare il senso civico … ed oggi non mi sembra affatto che ce ne siano le condizioni! Occorrerebbero anni di insegnamento dell’Educazione Civica (vergognosamente eliminata dall’insegnamento scolastico), occorrerebbe rivedere il modo di insegnare la storia dell’arte e dell’architettura, imponendo anche quello della Storia dell’Urbanistica (oggi inesistente nelle scuole superiori), occorrerebbe imporre l’insegnamento della Sociologia Urbana, affiancato a quello dell’Urbanistica, per far comprendere a chiunque, e non solo a pochi eletti che andranno a studiare architettura ed urbanistica (peraltro con tutti i limiti dell’ideologia), quelli che sono gli effetti collaterali dell’urbanistica e dell’architettura … solo allora potrebbe rendersi possibile operare come Romano suggerisce.

Potrei andare avanti moltissimo … ma rischierei di essere prolisso, quindi rimando ai miei tanti articoli sparsi nel web ed ai miei libri per far capire meglio ciò che intendo, però devo fare un’ultima annotazione, questa volta profondamente critica.

Romano dice:

«E se dobbiamo oggi levare una bandiera di difesa della libertà del cittadino nella propria casa, alla nostra generazione toccherebbe abolire subito tutte le norme che concernono il suo interno, dove ciascuno dovrebbe essere libero di ridurre l’altezza dei locali ai quei 2,26 metri che Le Corbusier considerava il modulo perfetto – o beninteso a qualsiasi misura ciascuno creda migliore – di scegliere la dimensione delle stanze, dei corridoi, dei bagni e di quant’altro giudichi confacente alla sua personalità, di decidere se e come illuminarli o arearli, e chissà che una casa senza finestre non faccia riparo alle crescenti polveri inquinanti sparse nell’aria cittadina. (…)»

Ebbene questa libertà non è percorribile, né può esserlo l’idea che si possa fare a meno, in nome di una presunta libertà, di conquiste scientifiche come quelle derivanti dall’eziologia e dalla fisiologia e neurofisiologia!

Consentire di costruire ambienti dimensionati in quel modo, o addirittura non ventilati significa buttare nel cesso anni di studi che hanno portato a ridurre la mortalità delle persone grazie anche al miglioramento delle condizioni di vita delle abitazioni … cosa che Le Corbusier, dall’alto della sua presunzione ed ignoranza, volle fingere di non sapere, per il comodo degli speculatori suoi sponsors.

Il risultato di quell’ignoranza portò gli architetti, gli urbanisti, e prima di loro i docenti universitari a fare una grandissima confusione, sempre negli interessi degli speculatori (fondiari ed edilizi), tra “densità urbana” e “densità abitativa”, portando le città ad espandersi a macchia d’olio in nome di una errata criminalizzazione dei centri storici – densi e compatti – che nulla aveva a che fare con le condizioni di vita all’interno degli edifici.

Inutile quindi far notare l’ossimoro delle stanze senza finestre per prevenire crescenti polveri inquinanti sparse nell’aria cittadina: stanze senza finestre = dipendenza dall’aria condizionata = aumento dell’inquinamento = aumento delle polveri sottili!

Detto ciò chiudo con la speranza che questo scritto aiuti tutti, Romano incluso, a riflettere sulla frase “est modus in rebus”: … così come fu un grande errore quello di spazzare tutto il passato in nome dell’ideologia modernista (Carta di Atene e Le Corbusier), altrettanto e peggio ancora potrebbe succedere nel caso si facesse repentinamente, e senza nuove regole, piazza pulita, in nome della demagogia, di tutto ciò che abbiamo conquistato in materia di ecologia e salute pubblica!

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