2012-11-08

di Ettore Maria Mazzola

Recentemente mi è stato ironicamente segnalato un articolo, firmato da Manlio Lilli, pubblicato il 4 novembre u.s. sul sito www.linkiesta.it. Chi conosca il progetto non può evitare di rimanere perplesso leggendo il titolo di quell’articolo: “Ad Amsterdam, lo Stedelijk Museum si fa attendere. Ora sappiamo che ne valeva la pena”.

L’articolo, a mio avviso, parte molto bene, lamentando la cialtroneria degli italiani che non sono in grado di tenere aperti i musei, a differenza di ciò che avviene in altro Paesi dove, nonostante la penuria di opere d’arte rispetto al nostro, i musei e i siti vengono super valorizzati. Come non dar ragione all’autore, visto che i musei italiani, come tutto ciò che ha a che fare col turismo, dovrebbero darci da campare?



Prima di andare avanti col discorso, è bene sottolineare il fatto che l’autore sia un laureato in lettere con indirizzo archeologico e che, recita il suo profilo biografico, fa l’archeologo per scelta, provando a mangiare (poco, naturalmente) con la Cultura. L’autore è una persona di tutto rispetto. Infatti, a quanto si apprende nel profilo, ha pubblicato tre interessanti monografie su centri del Lazio antico, oltre a numerosi contributi sull’Italia antica in riviste di settore, e collabora con una serie di siti culturali sparsi nel web, tra cui Libertiamo, Linkiesta, Il Futurista e l’Istituto di Politica.

È quindi un peccato, e non riesco a capacitarmi del perché, in questo articolo, egli abbia dovuto scadere nell’ideologia. Infatti, piuttosto che limitarsi a dare un eventuale benvenuto ad un nuovo museo, limitandosi al fatto che una nuova collezione possa esser stata aggiunta ad una preesistente, (indipendentemente dal fatto che possa o meno quella collezione essere apprezzabile), l’articolo è stato utilizzato come il luogo per sfogare tutta la rabbia possibile nei confronti di un presunto immobilismo italiano nel produrre opere architettoniche moderniste … quasi che i deprecabili interventi che vanno dal Museo dell’Ara Pacis, al MAXXI, passando per il MACRO – solo per citare gli esempi romani più recenti – non fossero mai esistiti. In pratica, l’articolo sembra esser figlio di un incomprensibile complesso d’inferiorità culturale verso certe cose che si fanno all’estero, un complesso che in Italia, dato il nostro patrimonio, risulta del tutto fuori luogo, tranne che nella mentalità di un certo genere di architetti cresciuti a pane e modernismo.

Del museo si racconta che, grazie alla nuova realizzazione, è stato possibile ampliare la collezione con nuove acquisizioni come, l’installazione luminosa di Dan Flavin dedicata a Mondrian e il ritratto di Bin Laden di Marlene Dumas … Se fossi Romolo Prince del programma comico Colorado commenterei con un finto apprezzamento dicendo: con certe opere possiamo dire che i 127 milioni di euro, all’incirca 20 più del previsto, siano stati davvero spesi bene!! …. Ma che …. sto a dì, sto a scherzà!!

Questo genere di spese, per la realizzazione di un museo, ricordano molto da vicino i 160 mln di euro spesi per costruire il MAXXI di Roma, per il quale ne sono stati spesi altri 60 per acquisire opere orribili e fallimentari che, come c’era da immaginare, non hanno suscitato alcun interesse, portando la struttura, come già accaduto per il MACRO, al fallimento ed al cambio del direttore, come se il problema fosse il solo direttore del museo, e non la concezione ideologica che lo abbia generato, nonché il genere di “opere” ivi esposte.

Ovviamente, ciò che sfugge a chi se la prende con il presunto immobilismo italiano in materia di architettura contemporanea, è il fatto che “Mamma Italia” abbia generosamente dirottato fondi destinati ad altri beni culturali, più redditizi in termini di turismo, per il salvataggio di quell’orribile capriccio modernista, inclusi i fondi che avrebbero potuto consentire di tenere aperti dei musei! Si rammenta che, per bocca del precedente direttore del MAXXI, il budget annuale per tenere in piedi quella struttura è di circa 75 mln di euro, a fronte delle pochissime presenze giornaliere!

Alla luce di questa cosa, c’è da chiedersi come, un “archeologo per scelta” – come usa definirsi l’autore dell’articolo – possa accettare che avvengano certi dirottamenti di fondi, e soprattutto, come egli possa usare l’esempio olandese per lamentarsi dell’immobilismo italiano in materia di architettura contemporanea!

A quanto si apprende, la prima ragione dell’intervento sul preesistente Stedelijk Museum è stata la necessità di ampliare i suoi spazi espositivi. Ma anche di ripensarne il concetto. Pare che siano stati prima approvati e poi ripudiati ben due progetti (dei quali sarei davvero curioso di vedere come fossero concepiti … almeno in che modo si relazionassero con le preesistenze) poi, una volta fallita la prima impresa di costruzioni (cosa curiosa che meriterebbe qualche approfondimento), si è deciso di affidare l’incarico allo studio di architettura Benthem Crouwel di Amsterdam … a questo punto si è deciso di aggiungere e collegare al bell’edificio del 1895 un altro dalle linee moderne … (9000 mq aggiunti agli originari 10000!) evidentemente i titolari dello studio incaricato non potevano limitarsi a restare invisibili all’interno della struttura preesistente … agli architetti autocelebrativi è geneticamente impossibile evitare di mostrarsi violentemente al pubblico: è come se ad un pavone gli venisse impedito di fare la ruota!

Ecco quindi che – come nel caso del MAXXI nato senza una collezione da esporre – anche per lo Stedelijk è nata l’esigenza di “riempire il nuovo contenitore” con nuove collezioni … già, il contenitore, perché oggi il “museo”, tra gli adepti del modernismo, non si chiama più “museo”, ma “contenitore”! Riflettendo su questa “evoluzione semantica” viene da pensare che, quando si parla di “opere consumistiche usa e getta”, il termine più appropriato è effettivamente “contenitore” … chissà quindi se, tra non molto, questa costante evoluzione porterà a chiamarlo, per coerenza, “cassonetto”!

Sebbene la totalità degli abitanti non abbiano apprezzato affatto questo progetto, ribattezzandolo “la vasca da bagno”, a detta dell’autore dell’articolo, cito testualmente:

“La gigantesca ala bianca disegnata dallo studio Benthem Crouwel, “immersa” nelle architetture storiche che la circondano, non sfigura. Tutt’altro. Il nuovo corpo dello Stedelijk, un gigantesco volume lungo cento metri e alto diciotto, anche cromaticamente “emerge”. Con il bianco del Twaron, la fibra sintetica che viene dall’aeronautica spaziale, e della fibra di carbonio Tenax”.

Sicché

“Nel complesso va salutata con soddisfazione la nuova realizzazione. Che senza dubbio risponde all’esigenza “progressista” degli olandesi. Alla loro voglia di sentirsi al passo con i tempi. All’ambizione di molti architetti di disegnare edifici che siano riconoscibili. Insomma che provino a raccontare una nuova storia. Perché l’Olanda non è l’Italia”.

Ebbene, se queste sono le ragioni per cui dovremmo ritenere bello questo edificio, allora viva la bruttezza. Se l’Italia non è l’Olanda, allora viva l’Italia!!

A me questo museo, più che ricordarmi una “vasca da bagno” sembra un gigantesco “lavello da incasso per cucina”, o forse è un enorme “lavandino da barbiere” dove oltre ai capelli possa operarsi anche un lavaggio del cervello in nome del modernismo, che della modernità rappresenta la visione distorta.

Personalmente penso che, prima di difendere l’indifendibile, sarebbe il caso di capire gli effetti collaterali di un certo tipo di “edilizia” (mi viene impossibile usare il termine “architettura” per certe cose), e mi fa specie che proprio un archeologo per scelta non se ne accorga.

Si rifletta sul fatto che, l’aver promosso questo modo di progettare e costruire anche in Italia, l’aver insegnato in maniera ideologica e monodirezionale, ha portato alla creazione di una massa di architetti che non sono assolutamente in grado di restaurare in maniera rispettosa il patrimonio storico! I crolli di Pompei e L’Aquila, ma anche quelli che di qui a breve rischiano di interessare sempre Pompei, ma anche Selinunte dovrebbero mettere in allarme chi vorrebbe “vivere di archeologia e cultura”.

L’affannosa ricerca formale verso architetture aliene ”rappresentative dell’ambizione di molti architetti di disegnare edifici che siano riconoscibili. Insomma che provino a raccontare una nuova storia” è gravemente dannosa per quel patrimonio che dovremmo tutelare. Se progetti come quello di Benthem Crouwel dovessero iniziare a proliferare anche in Italia (se ce n’è uno perché non cento? O mille?) che cosa rimarrà nel nostro Paese ad attirare i turisti? e poi, indipendentemente dal turismo, perché gli architetti dovrebbero essere autorizzati a fare edifici autocelebrativi strafregandosene del concetto di bene e bello comune?? Ma soprattutto, se intimidiamo i nostri studenti e li convinciamo della necessità di non commettere “falsi storici”, se in nome di una impellenza di progettare solo architetture futuristiche, perché appartenenti al XXI secolo, non insegniamo più a disegnare e costruire anche in maniera filologica e rispettosa dell’architettura del nostro passato, anche più recente, chi mai più sarà in grado di mantenere in vita il nostro patrimonio?

Viollet-Le-Duc, preoccupato per il modo dittatoriale in cui si insegnava l’architettura al tempo dell’Academie des Beaux Arts di Parigi, perché a suo avviso metteva a rischio il patrimonio architettonico medievale francese, a causa dell’assenza di conoscenze tecniche in materia, disse: “per quanto riguarda la folla degli studenti, dopo aver progettato per dieci anni monumenti impossibili e indescrivibili, essi non hanno davanti a sé che la prospettiva di un posto in provincia, oppure il settore privato. Ora, bisogna riconoscere che essi non sono stati assolutamente preparati a svolgere queste funzioni. Poche idee pratiche, molti pregiudizi, nessuna conoscenza dei materiali del nostro paese e dei modi di impiegarli, il profondo disprezzo dell’ignoranza per le arti proscritte dalla scuola e difficili da studiare e conoscere; nessuna idea della direzione e dell’amministrazione dei cantieri, nessun metodo, e la mania di fare dei monumenti, quando si tratta semplicemente di edificare costruzioni solide, adeguate, adatte alle esigenze” (...) “dal fatto che fate costruire tutte le case di una strada o di una piazza con lo stampino, dal fatto che esigete che il vostro architetto riempia una facciata di finestroni simili, malgrado i servizi molto diversi contenuti nell’edificio, concludete di dar prova di rispetto per l’arte. Errore, voi la torturate; vi trasformate nel suo boia; (…) e cos’è dunque l’espressione del pensiero, se siete costretti a ripetere quanto dice il vostro vicino, o a dire bianco quando vedete nero?”.

Senza ombra di dubbio noi potremmo dire esattamente oggi le stesse cose relativamente ai danni culturali prodotti da una maniera del tutto distorta di guardare alla modernità (modernismo) e, soprattutto, di insegnare l’architettura in nome di un complesso di inferiorità culturale che non ci appartiene.

Osannare progetti come quello in oggetto, e criticare la nostra presunta limitata apertura al contemporaneo – specie da parte di chi, per scelta professionale, dovrebbe mirare alla tutela più assoluta del nostro retaggio culturale – equivale dunque all’auspicare la distruzione del nostro patrimonio … un po’ come quel marito che, per far dispetto alla moglie prese una decisione autolesionista alquanto discutibile!

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