Matteo Bittanti
Room 237 e le nuove pratiche della cinefilia
L’avvento della rete ha (s)travolto le forme tradizionali della critica cinematografica, offrendo a una nuova generazione di cinefili la possibilità di raggiungere pubblici variegati attraverso siti personali, piattaforme multimediali e servizi di video sharing. A contrastare il numero sparuto di esperti accademici capaci di sfruttare il potenziale dei new media per fini pedagogici - tra le rare eccezioni spicca sua eminenza David Bordwell - c’è un esercito di critici “amatoriali” che nell’ultimo decennio ha prodotto una considerevole mole di saggi multimediali di spessore. Il termine “amatoriale” è virgolettato giacché in molti casi, l'efficacia ermeneutica di questi contributi supera di gran lunga quella dei cosiddetti “professionisti”, come hanno illustrato studiosi del fandom studies del calibro di Henry Jenkins e Mizuko Ito.
Room 237 (2012), il nuovo documentario di Rodney Ascher (nota 1), propone cinque differenti interpretazioni create da altrettanti fans di Shining (Stanley Kubrick, 1980), quattro uomini e una donna. Le varie esegesi - tutte disponibili in forma integrale su YouTube e sui siti personali dei rispettivi autori, da diversi anni - tentano di rispondere a una domanda apparentemente semplice: Di cosa parla, esattamente, Shining?
Le risposte, che i critici “professionisti” hanno liquidato come mere teorie cospirative, spaziano dal fantapolitico - “Si trata dell’apologia di Kubrick, pentitosi per aver girato il fittizio sbarco sulla Luna, orchestrato dalla NASA” (la tesi di Jay Weidner, autore del documentario Kubrick’s Odyssey e fonte di ispirazione primaria di The Shining Code 2.0)(nota 2) - al sociale - “Si tratta di un'allegoria del genocidio dei Nativi Americani da parte dei bianchi” (Bill Blakermore) - dal mitologico - “Una rilettura dela figura del Minotauro” (Juli Kearns) al fenomenologico - “Shining è in realtà un'opera di video arte, che va proiettata in avanti e indietro, simultaneamente, su un unico schermo” (John Fell Ryan), senza dimenticare la lettura storiografica, secondo cui “Shining è una metafora dell’Olocausto” (Geoffrey Cocks). (nota 3)
Le eterogenee interpretazioni discusse in Room 237 sono accomunate dalla seguente premessa: i corridoi, le stanze, la lobby, il bar, la dispensa dell’Overlook Hotel contengono misteri, inconsistenze e anomalie. Dato che “Stanley Kubrick non può commettere ‘errori’ perché è... Stanley Kubrick!” (questo il postulato comune) le presunte incongruenze sono piuttosto indizi, sintomi, rimandi. Ergo, per cogliere il “vero” messaggio che si cela dietro al racconto “ufficiale” è necessario decostruire il film, utilizzando una varietà di approcci e metodologie - dalla semiotica alla psicoanalisi, dall'interpretazione composizionale all'analisi del discorso - con buona pace di Derrida.
La visione di Room 237 affascina per svariati motivi.
In primo luogo, perché celebra la passione/ossessione per il cinema di alcuni “spettatori” particolarmente creativi, spettatori che i critici di professione, per ragioni di demarcazione intellettuale, considerano fan-anatici, invasati, nerd e/o paranoici. In realtà, l’attenzione che gli appassionati prestano agli aspetti più minuti del testo trascende quella di chi, con le recensioni, ci campa e ci costruisce sopra una carriera - questa la vera anomalia, tenendo conto della natura profondamente parassitaria e derivativa della pratica.
Non a caso, nel recensire Room 237, i critici “professionisti” si sono accaniti sull’infondatezza, vera o presunta, delle interpretazioni dei fans invece di valutare la capacità di Ascher di presentare in modo efficace tali interpretazioni. Un vero faux pas, che confonde il contenuto (il cosa) con la forma (il come). Errore cardinale, considerando che in questo caso, la forma è mediocre, come si evince dal pessimo incipit che remixa una scena di Eyes Wide Shut. Le varie interpretazioni non sono presentate in modo sistematico: le tesi dei cinque "autori" - che non sono mai mostrati sullo schermo - sono sparpagliate nei nove capitoli che formano il "saggio". L'uso di immagini di repertorio o di altri film non è particolarmente efficace. Ascher, dopo tutto, non è Adam Curtis.
In breve, sul piano formale e narrativo, Room 237 è un fallimento.
Ma si tratta di un fallimento interessante.
In secondo luogo, il fatto che i medesimi elementi (iconografici, stilistici e narrativi) di Shining siano stati interpretati in modi assai differenti, spesso divergenti, in alcuni casi diametralmente opposti dai critici presentati da Ascher, attesta la natura polisemica e intertestuale di un artefatto culturale che continua ad affascinare e intrigare pubblici differenti a trenta e passa anni dopo l’uscita nelle sale. “Codifiche aberranti!”, strillano i semiotici. Può darsi. Dopo tutto, le cinque teorie descritte nel documentario poggiano su una premessa fallace, una tautologia, un paralogismo: “Stanley Kubrick non può commettere ‘errori’ perché... è Stanley Kubrick!”.
Ma il punto è un altro.
Che l'inclusione di un modello particolare di macchina da scrivere (Adler) di Jack Torrance sia un consapevole e deliberato riferimento al nazismo; che il numero "42" che ricorre insistentemente - dalla maglietta di Danny al film The Summer of 42, trasmesso in televisione - rimandi al 1942, anno della Soluzione Finale; che il 237 della stanza corrispondente alluda alla distanza tra la Terra e la Luna (237,000 miglia, per l’esattezza) è assai meno rilevante del fatto che alcuni interpreti abbiano usato questi elementi per costruire una Grande Teoria. In un’epoca di scetticismo diffuso per le grandi narrazioni, l’idea stessa che Shining possa esprimere una Visione che trascende la contingenza testuale merita quantomeno una pacca sulle spalle. Non me ne voglia Lyotard... E liquidarle come semplici "teorie cospirative", "farneticazioni" o "deliri", non ci aiuta a comprendere la loro genesi, disseminazione e persistenza.
Terzo, Room 237 solleva alcune stimolanti domande in merito all’autorialità dell’opera. Di chi è, Shining? Di Stanley Kubrick? Di Stephen King, autore del romanzo originale? Di Warner Bros, lo studio che lo ha prodotto? O del pubblico? La risposta è chiara: nel momento in cui un autore introduce la sua creazione nella sfera pubblica, confrontandosi con una moltitudine, la paternità slitta. Dopo tutto, l’interpretazione è sempre un’appropriazione, per dirla con Barthes e De Certeau.
Detto altrimenti: nessuno possiede veramente Shining, ma molti ne sono stati (e ne sono) posseduti.
Questa possessione collettiva ha prodotto corpora critici che ci invitano a ripensare e ridefinire quell'oggetto misterioso che è Shining.
Non esiste un solo Shining, bensì cinque, cinquanta, cinquecento differenti Shining.
Queste interpretazioni costituiscono una forma peculiare di fan fiction: fan in quanto creata da appassionati; fiction, perché pur essendo analitica, questa produzione acquista ciò che potrebbe essere definita un'agenza e un'autonomia narrativa. Ovvero: sono simultaneamente derivate (in quanto non potrebbero esistere a prescindere da Shining), ma anche indipendenti (nel senso che creano un mondo alternativo, un universo parallelo in cui Kubrick, effettivamente, ha diretto il falso allunaggio dell'Apollo per conto della NASA).
La mitopoiesi di Shining finisce, paradossalmente, per acquisire valenza ontologica.
La natura fluida e negoziabile di “autorialità” esemplificata dal "caso" Shining, spiega, inoltre, perché il pubblico abbia reagito con veemente disprezzo in merito alla decisione di Steven Spielberg di “aggiornare” E.T. con effetti digitali e censure politicamente-corrette nel 2002 (nota 4), in occasione dell’uscita in sala della versione “rimasterizzata”. Non parliamo poi delle battaglie furiose tra i fans di Guerre Stellari e il suo creatore, George Lucas, venerato e vituperato in eguali dosi, oggetto di un altro interessante documentario, George Lucas vs. The People (Alexandre O. Philippe, 2010).
Nell’era della cultura partecipativa discussa da Jenkins, la rigita delimitazione dell’artefatto culturale e la sua attribuzione esclusiva al singolo autore - (cfr. Author Theory, in italiano spesso tradotta come "politica degli autori") -, lascia posto a un approccio collaborativo, disperso e collettivo. Detto altrimenti, il valore artistico, culturale, intellettuale di Shining è direttamente proporzionale alla sua capacità di produrre, (in)direttamente, un corpus di interpretazioni e letture critiche approfondite.
In un panorama culturale in cui è la rete e non è più la carta stampata a definire priorità e gerarchie, l’importanza, popolarità, risonanza e visibilità di una tesi “cospirativa” di Shining può acquistare un’importanza di gran lunga superiore a quella delle recensioni dei a) critici autorevoli di quotidiani/riviste specializzate o b) i saggi accademici in quanto le prime (a) non sono lette più da nessuno, e i secondi (b) si rivolgono a un pubblico ristretto, specializzato, elitario.
Quarto, Room 237 celebra, indirettamente, le pratiche di scrittura e archiviazione degli appassionati che hanno creato un corpus di analisi di grande qualità. E lo hanno fatto lontano dai ghetti di Facebook, Twitter, Tumblr e degli altri “social media” nei quali la "comunicazione" consiste in operazioni di reblogging, like/dislike, tired/expired, retweet, follow/unfollow. Ritrovare in rete questi saggi articolati innesca inevitabili attacchi di nostalgia per il web delle origini, quello frequentato da appassionati. Quello che valeva la pena di leggere, archiviare e conservare. E’ significativo che queste interpretazioni siano state generate in un’era in cui internet non era sinonimo di "sovraccarico di informazioni", "smartphone vibrante", falsa intimità. Sono infatti analisi che richiedono tempi di consumo dilatati, un’attenzione prolungata, una disposizione cognitiva che il web 2.0 e i silos glorificati da WIRED, hanno contribuito a distruggere. Queste poderose esegesi sono state prodotte da appassionati che hanno esaminato il testo originale scena-per-scena, frame-by-frame, confrontando differenti versioni, esaminando un vasto archivio di paratesti (interviste, saggi, biografie etc.) e collegandoli tra loro. Il risultato è un vasto archivio di simboli, indizi, sintomi e segnali. Un database vernacolare che va preservato a ogni costo.
Quinto, Room 237 rappresenta un nodo del reticolo critico che si è formato attorno a Shining e pur non introducendo nuove informazioni (a differenza, per esempio, del recente documentario Salinger di Shane Salerno), svolge la funzione di catalizzatore, rilanciando l’importanza e il valore delle pratiche creative di una comunità (sottocultura?) e, allo stesso tempo, portando in primo piano la natura essenzialmente digitale di queste interpretazioni. Interpretazioni multi-mediali (composte da testo, audio, video), disseminate per mezzi di servizi come YouTube, i siti personali dei rispettivi autori anziché da pubblicazioni accademiche, riviste specializzate o altri loci della “cultura alta”.
Si tratta di una forma di critica altamente immersiva, non mero rigorosa, penetrante e accurata di quella "ufficiale" anche se utilizza un registro, una retorica e un sistema di riferimento differenti. Ma la critica dei fans, come quella dei professionisti, è costruita a partire da visioni ripetute, prolungate, rallentate. Gli appassionati si servono dei computer per "grabbare" le immagini, per rallentare o interrompere il playback, per ingrandire alcuni dettagli. Il videoregistratore è stato soppiantato dall'instant streaming di Netflix e del suo immenso archivio di film sempre accessibili da qualunque luogo, il che ha, a sua volta, ha reso possibile l'emergere di nuove forme di cinefilia.
Ci troviamo di fronte, dunque, a una critica digitale, ma, soprattutto, a una critica alternativa. Va ricordato che Shining era stato accolto in modo tiepido dai critici di professione in occasione della sua uscita in sala, nel 1980. Lo stesso vale per un altro film che i fans hanno successivamente decostruito in modo maniacale, Blade Runner di Ridley Scott (1982). Negli ultimi anni, la rete ha ospitato e indirettamente favorito l’avvento di nuove pratiche di critica che hanno trovato alcuni esempi paradigmatici nel rimontaggio “ossessivo compulsivo” del supercut. Uno dei migliori esempi di questo genere è rappresentato dai video-saggi del coreano kogonada, che oggi collabora con il British Film Institute. Un’intera generazione di studenti apprende la storia e la critica del cinema non dai testi sacri di Bazin, ma dai saggi visuali pubblicati su vimeo e YouTube.
Sesto, Room 237 solleva interessanti domande in merito alla questione dell'uso leale (fair use) di artefatti culturali protetti gelosamente da corporation per fini critici e/o pedagogici. Sul piano legale, infatti, la maggior parte di analisi audiovisive che utilizzano contenuti e proprietà intellettuali altrui rischiano di venire rimosse o denunciate. Da qui la necessità di preservarle (vedi il punto 4). L'uso leale protegge le opere che utilizzano materiali protetti da copyright se hanno una natura didattica e senza scopo lucrativo (ma diversi critici, tra cui Rob Ager e Jay Weidner, vendono le loro interpretazioni in formato DVD). Allo stesso modo, l'uso leale protegge forme di critica che utilizzano una porzione ridotta dell'opera originale, ma in molti casi, i documentari si appropriano di interi segmenti del film di Kubrick. Si tratta di un'area nebulosa e complessa, sul piano legale prima ancora che culturale.
Ultimo, ma non meno importante, Room 237 esalta la natura ludica del cinema in quanto medium, un dispositivo che presuppone un pubblico disposto ad ingaggiare un sofisticato gioco di decodifica. Shining non va visto, ma risolto, come un puzzle. Non a caso, una delle immagini chiave del film è il labirinto. Le cinque interpretazioni sintetizzate da Ascher rappresentano altrettante guide strategiche per risolvere il "mistero" di Shining, con tanto di esercizi di cartografia applicate, studi architettonici e "cheat modes".
Ergo, per apprezzare Room 237 è indispensabile stare al gioco.
Matteo Bittanti
Note
Una versione ridotta di questo saggio è stata pubblicata su Rolling Stone Italia di dicembre 2013.
Nota 1. Dello stesso regista segnaliamo il cortometraggio The S From Hell (2010) che decostruisce, in modo ironico, il logo che compare nei titoli di coda di popolari telefilm come Bewitched (in italiano, Ho sposato una strega) The Partridge Family dal 1965 al 1974. Al pari di Room 237, The S From Hell decostruisce il logo della Screen Gems, ravvisando ipotetici messaggi satanici.
Nota 2. Questa interpretazione ha a sua volta ispirato il brillante Capricorn One (Peter Hyams, 1978).
Nota 3. Si potrebbe notare, en passant, che la selezione di Ascher è incompleta. Manca, per esmepio, l’intrigante analisi del britannico Rob Ager che, da oltre una decade, compila saggi multimediali che commercializza sotto forma di DVD direttamente dal suo sito, Collative Learning. Ager esamina, tra le altre cose, il fiume di sangue, la crisi morale dell’America e il fallimento del “Sogno”, e svariate incongruenze, pardon, indizi, presenti in Shining.
Nota 4. Cfr. Matteo Bittanti, “La logica dell’update in E.T. l’extraterrestre”, in Ezio Alberione, a cura di, Incubi e meraviglie. Il cinema di Steven Spielberg, Edizioni Unicopli, Milano, 2002.
Media
Image gallery: fonte Room 237 (Rodney Ascher, 2012)
Robert Ascher
Robert Ascher, The S From Hell, 2010, cortometraggio, 8' 57"
Robert Ascher, Room 237, trailer, 2012.
Bill Blakemore
Rob Ager
Rob Ager, The Shining, Mystery of the Twins, analisi, 2012, 14.58.
Rob Ager, The real Overlook Hotel, analisi, 2011, 3' 50.
Autori Vari
Autori Vari, The Shining Code 2.0, documentario, 2012, 79' 13" [fonte]
Geoffrey Cocks
Movie Geeks United!, The Kubrick Series Uncut: GEOFFREY COCKS, 2013, intervista audio, 2013, 58' 12"
John Fell Ryan
Movie Geeks United!, The Kubrick Series Uncut: JOHN FELL RYAN, intervista audio, 2013, 34' 18".
Jay Weidner
Jay Weidney, Kubrick's Odyssey: Secrets Hidden in the Films of Stanley Kubric, trailer, 2011.
kogonada
kogonada, Kubrick // one-point perspective, video, 2012, 1' 44"