Abstract: Recenti ricerche condotte dal dipartimento di endocrinologia delle Università di Bari, Padova e Pisa, in collaborazione con la Società Italiana di Diabetologia, hanno dimostrato l’associazione tra l’assunzione di olio di palma e lo sviluppo del diabete. Notizie del genere fanno presto a diventare virali, in particolar modo sul web, e altrettanto facilmente pseudo-giornalisti e pseudo-medici, improvvisatisi esperti del settore, possono diffondere informazioni errate, causando, tra l’altro, psicosi tra la popolazione. Cercheremo di capire cos’è, come si sviluppa e come si combatte il diabete mellito tipo II.
Il termine diabete è entrato a far parte del vocabolario medico già nel II secolo d.C., quando il medico greco Sorano d’Efeso utilizzò il suo significato letterale di “passare attraverso”, per associarlo a una condizione patologica caratterizzata dal bisogno impellente di urinare. La forma di diabete cui comunemente si fa riferimento è propriamente indicata con il termine di diabete mellito, condizione patologica caratterizzata dalla produzione eccessiva sì di urine ma dolci (un tempo, i medici erano soliti assaggiare l’urina dei pazienti per valutare la concentrazione di zucchero e quindi diagnosticare la malattia).
La Società Italiana di Diabetologia definisce il diabete mellito come un gruppo di disordini metabolici accomunati dal dato clinico dell’iperglicemia. Secondo la causa scatenante, i fattori che contribuiscono all’iperglicemia possono comprendere una ridotta secrezione d’insulina, una riduzione dell’utilizzo del glucosio e un incremento della produzione di glucosio. Le alterazioni metaboliche provocate dal diabete mellito causano modificazioni patologiche secondarie in numerosi organi e apparati, tra cui cuore, reni, occhi e cervello. Esistono prevalentemente due forme di diabete: tipo I, ossia la forma primitiva idiopatica (definito un tempo diabete giovanile) e tipo II, tipico dell’età adulta e su cui ci soffermeremo in quest’articolo. La prevalenza del diabete mellito di tipo II sta crescendo a dismisura in tutto l’occidente, probabilmente, a causa dell’incremento dell’obesità, dei ridotti livelli di attività fisica e dell’invecchiamento della popolazione. In Italia, la percentuale dei diabetici si attesta al 5,5% (circa quattro milioni di cittadini) con picchi dell’8-9% nelle regioni del sud come Calabria, Puglia e Campania. Nella nostra nazione, ogni minuto è effettuata una nuova diagnosi di diabete, ogni tre minuti e mezzo un diabetico ha un attacco cardiaco, ogni dieci minuti un diabetico muore. L’impatto del diabete è alto non solo dal punto di vista della mortalità (numero di decessi annui), ma anche della morbilità: si è calcolato che in media un diabetico vive dai cinque a dieci anni in meno rispetto a un non diabetico e che annualmente spende circa 2600 euro in più per la sua salute, tra farmaci, esami di laboratorio e ricoveri in ospedale per complicanze.
Come si sviluppa il diabete mellito tipo II?
Le cellule del nostro organismo utilizzano essenzialmente due tipi di nutrienti per produrre energia: grassi e carboidrati. Alcune cellule sono in grado di adoperarli entrambi, privilegiando in particolar modo i grassi; altre, come le cellule del sistema nervoso e i globuli rossi possono solo utilizzare i carboidrati (glucosio) come fonte di energia. Le peculiari necessità metaboliche delle cellule nervose hanno determinato lo sviluppo di un particolare sistema neuro-ormonale che regoli la giusta concentrazione del glucosio nel sangue. Nel pancreas risiedono particolari recettori che monitorano i livelli di zuccheri nel sangue e li mantengono adeguati alle necessità dell’organismo. Nella regolazione della glicemia intervengono due ormoni contrapposti: insulina e glucagone. L’insulina è un ormone anabolizzante secreto a seguito di un aumento della concentrazione del glucosio nel sangue: il suo compito principale è quello di abbassare la glicemia permettendo alle cellule muscolari e adipose di immagazzinare zuccheri e convertirli a grassi da deposito, e ridurre il senso di fame. Il glucagone è secreto quando la concentrazione di glucosio nel sangue è bassa: agisce a livello del fegato determinando la liberazione del glucosio di riserva, aumenta la fame, mobilizza i grassi di deposito. È fondamentale che i livelli di glucosio nel sangue siano mantenuti in un intervallo compreso tra 70 e 100 mg/dl di sangue. Valori al di fuori di questo intervello permettono di definire le ipoglicemie (glicemia <69 mg/dl) e le iperglicemie (glicemia >101 mg/dl).
Si parla di diabete mellito quando all’iperglicemia si associano le manifestazioni patologiche correlate. Questo valore non è uguale per tutti; tuttavia l’Associazione Americana per il Diabete (ADA), la Società Europea di Diabetologia (ESD) e la Federazione Internazionale del Diabete (IDF) concordano ampiamente sul fatto che nella maggior parte della popolazione, le alterazioni patologiche comincino a comparire con una glicemia a digiuno stabilmente superiore nel tempo ai 126 mg/dl. La popolazione con glicemia a digiuno compresa tra 101 e 125 mg/dl presenta un rischio più elevato di sviluppare progressivamente diabete di tipo II e hanno un aumentato rischio di patologia cardiovascolare. Alcuni autori utilizzano per questa categoria di pazienti il termine “prediabete” o “iperglicemia intermedia”. Se si considera che il numero dei pazienti in prediabete è doppio rispetto agli attuali pazienti diabetici, si può immaginare quanto grande sia l’impatto di questa patologia in termini economici e di “anni di vita persi”.
Nello sviluppo del diabete di tipo II intervengono due elementi fondamentali: ereditarietà genetica e fattori ambientali (in particolare dieta e attività fisica). La componente genetica svolge un ruolo preponderante: gli individui con un genitore affetto da diabete tipo II hanno un rischio aumentato di contrarre diabete in futuro; se entrambi i genitori sono affetti, il rischio nei figli può raggiungere il 40%. Generalmente, quando entrambi i genitori sono diabetici, la patologia compare precocemente e con maggiore gravità nei figli.
L’alimentazione è sicuramente l’elemento determinante coinvolto nello sviluppo del diabete tipo II: l’80% dei diabetici è obeso, o affetto da sindrome metabolica. La sindrome metabolica è una condizione patologica predisponente allo sviluppo di malattie cardio-cerebro-vascolari e renali caratterizzata da almeno tre elementi su cinque fondamentali: ipertensione arteriosa (PA> 130/85 mmHg), obesità addominale (circonferenza vita >102 cm negli uomini e >88 cm nelle donne), alti livelli di trigliceridi (> 150 mg/dl), iperglicemia (glicemia a digiuno >100 mg/dl) e bassi livelli di colesterolo buono (HDL <40 mg/dl nell’uomo e <50 mg/dl nella donna). È ormai noto da anni che il tessuto adiposo non rappresenta solo un deposito di materiale energetico sotto forma di trigliceridi; esso è attivamente presente nella regolazione del metabolismo energetico, nonché del senso di fame/sazietà grazie alla produzione di particolari ormoni (adipochine) quali leptina e adiponectina.
I due difetti metabolici che caratterizzano il diabete di tipo II sono: una minore capacità dei tessuti periferici di rispondere all’insulina (insulino resistenza) e una ridotta capacità delle cellule del pancreas di secernere insulina in risposta all’iperglicemia. L’insulino resistenza generalmente precede lo sviluppo d’iperglicemia e si accompagna a iperfunzione delle cellule del pancreas che cercano di produrre più insulina per contrastare l’iperglicemia. Quando le cellule pancreatiche vanno incontro a un fenomeno di esaurimento, per cui la produzione d’insulina non è in grado di contrastare l’iperglicemia, si sviluppa il diabete. L’obesità addominale (viscerale) ha effetti profondi sulla sensibilità dei tessuti (muscolo e adipe) all’insulina. L’eccessiva presenza di grassi liberi in circolo (cosiddetti NEFA – acidi grassi non esterificati), tipico dei soggetti obesi o di chi fa quotidianamente uso di junk food (cibo spazzatura), causa un fenomeno di competizione con il glucosio nell’essere assorbito dalle cellule. Questa competizione spinge le cellule del pancreas a produrre più insulina, fino a quando non sopraggiunge il fenomeno dell’esaurimento funzionale e lo sviluppo del diabete. L’osservazione secondo la quale non tutti gli individui obesi con insulino resistenza sviluppino diabete conclamato suggerisce che deve esistere una certa predisposizione genetica all’esaurimento funzionale delle cellule del pancreas.
Perché il diabete è pericoloso?
La morbilità associata al diabete mellito di lunga durata è da ricondurre alla persistente iperglicemia che causa uno stato di glucotossicità. Questo stato agisce prevalentemente a livello dei vasi arteriosi di grande, medio e piccolo calibro, causando la macroangiopatia e la microangiopatia diabetica. La macroangiopatia provoca nei diabetici un’aterosclerosi accelerata, determinando un maggior rischio d’infarto del cuore, ictus e gangrena degli arti inferiori; gli effetti della microangiopatia sono più gravi a carico dell’occhio, dei reni e dei nervi periferici, provocando, rispettivamente, la retinopatia, nefropatia e neuropatia diabetica. Nel mondo occidentale, queste condizioni rappresentano le cause principali d’insufficienza renale terminale, di amputazione non traumatica degli arti inferiori e di cecità nella fascia di età tra i 20 e i 75 anni. Le malattie cardiovascolari sono più frequenti negli individui diabetici: il rischio d’infarto cardiaco, morte improvvisa, malattia vascolare periferica, scompenso cardiaco e coronaropatia, sono 5 volte più frequenti. L’American Heart Association (AHA) ha indicato il diabete mellito come equivalente cardiovascolare: i pazienti diabetici senza storia d’infarti hanno un rischio di evento cardiaco (coronaropatia, morte improvvisa) identico ai soggetti non diabetici che però hanno già avuto un infarto. I pazienti obesi e diabetici presentano, inoltre, uno stato infiammatorio di base che accelera tutti i processi patologici e predispongono allo sviluppo d’infezioni con frequenza e gravità maggiore. La gravità e la velocità di progressione della malattia è direttamente correlata al valore della glicemia.
Come si manifesta il diabete mellito di tipo II?
Nella maggior parte dei casi il sospetto di diabete nasce da valori anomali della glicemia in analisi del sangue di routine; tuttavia, molti pazienti non effettuano frequentemente esami di laboratorio, per cui il sospetto di diabete può nascere da alcuni segni clinici. Il rene filtra e riassorbe la maggior parte dei componenti del sangue; quando la glicemia supera il valore di 180 mg/dl, il rene non è più in grado di riassorbire il glucosio e quest’ultimo compare nelle urine. Il glucosio è una molecola idrofila e quando è presente nelle urine, richiama grandi quantità di acqua, causando diuresi imponente (poliuria, da qui nasce il termine diabete mellito). Alla poliuria, si associa una smisurata sete, necessaria per riequilibrare i liquidi persi (polidipsia). La neuropatia diabetica, associata alla vascolopatia cerebrale spesso altera i meccanismi neurologici deputati alla sensazione di sete: è frequente nell’anziano che, alla diuresi imponente, non si associ un adeguato senso di sete. Il paziente può andare così facilmente incontro a una condizione particolarmente grave definita Stato Iperosmolare Iperglicemico (SII), che, se non diagnosticata in tempo, può portate a coma e morte. Altri sintomi associati al diabete di tipo II sono: stanchezza cronica, calo dell’acuità visiva, infezioni superficiali frequenti (vaginiti, micosi) e lenta riparazione delle ferite cutanee dopo un trauma.
Come si diagnostica il diabete mellito?
Alle manifestazioni cliniche devono necessariamente essere associati i dati di laboratorio. Abbiamo ricordato precedentemente come la comunità scientifica consideri diabete una glicemia a digiuno superiore ai 126 mg/dl. La diagnosi di diabete può essere fatta attraverso la misurazione della glicemia a digiuno, a intervalli random o dopo test di carico orale con glucosio, o con il monitoraggio dell’emoglobina glicata. Per la diagnosi di diabete è sufficiente:
più misurazioni di glicemia a digiuno con valori superiori a 126 mg/dl;
più misurazioni di glicemia a intervalli casuali (random) superiori a 200 mg/dl;
una glicemia superiore a 200 mg/dl due ore dopo il test di tolleranza orale con glucosio;
un valore di emoglobina glicata superiore ai 6,5 mmol/l (millimoli/litro di sangue).
Rientrano fra i prediabetici, coloro che possiedono:
più misurazioni di glicemia a digiuno con valori compresi tra 101 e 125 mg/dl;
più misurazioni di glicemia a intervalli casuali (random) compresi tra i 140 e i 199 mg/dl;
una glicemia compresa tra 140 e 199 mg/dl due ore dopo il test di tolleranza orale con glucosio;
un valore di emoglobina glicata compresa tra 5,7 e 6,4 mmol/l.
Sono invece considerati euglicemici (normoglicemici o non diabetici) coloro che hanno:
più misurazioni di glicemia a digiuno con valori inferiori a 100 mg/dl;
più misurazioni di glicemia a intervalli casuali (random) inferiori a 140 mg/dl;
una glicemia inferiore a 140 mg/dl due ore dopo il test di tolleranza orale con glucosio;
un valore di emoglobina glicata inferiore a 5,6 mmol/l.
Il test di tolleranza orale al glucosio (OGTT) è utilizzato per i casi dubbi o per la diagnosi precoce dei soggetti predisposti allo sviluppo del diabete tipo II. Consiste nella somministrazione di 1g di glucosio per kg di peso corporeo (generalmente 75g di glucosio) disciolto in acqua. Successivamente viene valutata la glicemia a 30, 60, 90 e 120 minuti dalla ingestione della soluzione.
La misurazione dell’emoglobina glicata (HbA1C) consente di valutare la glicemia dei passati 4 mesi e difficilmente è influenzata dalle variazioni quotidiane. Le principali linee guida nella gestione del diabete raccomandano di mantenere l’emoglobina glicata al di sotto di 7 mmol/l.
La terapia del diabete tipo II
Abbiamo ricordato in precedenza il ruolo dell’alimentazione nello sviluppo del diabete mellito tipo II. L’iperalimentazione o l’ingestione di cibi ad alto contenuto calorico predispongono all’obesità, alla sindrome metabolica e al diabete, con conseguenze non solo per il sistema cardiocircolatorio, ma anche renale, nervoso e osteoarticolare. Una dieta equilibrata richiede il 60% di carboidrati, 20% proteine e 20% grassi. Se si considera che carboidrati, grassi e proteine hanno un potere calorico di 4 – 9 e 4 kcal/g (chilocalorie/grammo) rispettivamente, un regime alimentare da 2000 kcal giornaliere, consente di ingerire all’incirca 300 g di carboidrati, 100 g di proteine e 45 g di grassi. Per una dieta equilibrata sono necessarie almeno tre porzioni di frutta/verdura al giorno. Bisogna introdurre un concetto fondamentale che spiega il motivo per cui non tutti i carboidrati hanno lo stesso effetto nel predisporre al diabete: l’indice glicemico (IG) è un sistema di classificazione numerica utilizzato per misurare la velocità di digestione e assorbimento dei cibi contenenti carboidrati e il loro conseguente effetto sulla glicemia. Un cibo con un punteggio dell’IG alto produce un picco glicemico elevato dopo la sua assunzione. A un elevato picco glicemico corrisponde un’adeguata produzione d’insulina da parte del pancreas. Maggiore è l’indice glicemico dell’alimento, maggiore sarà lo sforzo del pancreas nel produrre più insulina. Una dieta caratterizzata dall’assunzione continua di cibi ad alto indice glicemico predispone all’esaurimento funzionale del pancreas e quindi allo sviluppo del diabete. Gli alimenti che contengono zuccheri semplici (glucosio, maltosio, fruttosio, saccarosio, lattosio) e raffinati (zuccheri bianchi) sono quelli che più facilmente predispongono al diabete; tra questi rientrano principalmente bevande zuccherate (Coca Cola, Fanta, Sprite, ecc) e confezionati industriali contenenti farina bianca 00 (creme, nutella, barrette energetiche, gelati, biscotti, taralli, pasta, cracker, ecc). I pazienti diabetici o con predisposizione al diabete dovrebbero seguire una dieta ricca di alimenti a basso indice glicemico e basso livello di raffinazione; sono da preferire cibi con zuccheri complessi integrali a lento assorbimento come: pasta, pane e altri farinacei integrali. La dieta mediterranea, ricca in pesce, frutta e verdura, è il regime alimentare raccomandato dalla maggior parte dei nutrizionisti.Come ricordato in precedenza, anche gli alimenti ad alto contenuto di grassi predispongono all’insulino resistenza e al diabete. I grassi possono essere divisi in due grandi categorie: saturi e insaturi. La maggior parte dei grassi saturi, è solida a temperatura ambiente e rappresentano i grassi più abbondanti in carni, uova, derivati del latte e confezionati industriali. I grassi insaturi, invece, sono liquidi o semiliquidi a temperatura ambiente, tanto da essere definiti oli, e sono per la maggior parte presenti in alimenti di derivazione vegetale. A differenza degli oli vegetali (oliva, mais, semi, girasole, lino ecc,) i grassi saturi predispongono allo sviluppo delle malattie cardiovascolari e del diabete.
Come mai l’olio di palma provoca il diabete, pur essendo un olio vegetale?
Le notizie diffuse ultimamente sull’olio di palma hanno creato confusione tra le persone; l’olio di palma è un derivato vegetale saturo ricavato dalle palme da olio, principalmente Elaeis Guineensi. Il processo di estrazione dell’olio richiede calore e genera un derivato liquido ricco in beta carotene e acido palmitico. L’acido palmitico è uno degli acidi grassi saturi a lunga catena più comuni negli animali e nelle piante; il nome deriva proprio dal fatto che si trova abbondantemente nell’olio di palma, ma è contenuto anche nel burro, nel formaggio, nel latte e nella carne. Nonostante sia estratto principalmente da vegetali, a temperatura ambiente, l’olio di palma ha consistenza solida simile al burro. Abbiamo già ricordato come una dieta ricca di grassi saturi provochi diabete e malattie cardiovascolari; a questo punto non dovrebbe più stupire che un’alimentazione ricca in olio di palma (a. grasso saturo seppur vegetale) possa predisporre a tali patologie.L’olio di palma, essendo molto più economico dell’olio di oliva e avendo anche più risvolti pratici è stato utilizzato in numerosissimi prodotti alimentari industriali (biscotti, creme, merendine, cracker, patatine fritte, ecc), ma anche in ambito energetico (combustibile) e militare (bombe al napalm).
La prevenzione e la cura del diabete di tipo II agisce su tre livelli: dieta, attività fisica e terapia farmacologica. Una corretta alimentazione (dieta mediterranea) deve associarsi a un’adeguata attività fisica: la Società Italiana di Diabetologia consiglia di svolgere almeno trenta minuti di esercizio fisico aerobico al giorno. Qualora i primi due elementi terapeutici non siano sufficienti, possono essere associati farmaci che migliorano il metabolismo glucidico e lipidico (metformina, statine, ezetimibe, fibrati, integratori alimentari, ecc) o nei casi più gravi, l’insulina. L’ADA (American Diabetes Association) preme sulla questione dell’educazione del paziente all’autogestione del diabete. Argomenti importanti per una gestione ottimale sono: Terapia Medica Nutrizionale, a base di dieta ipocalorica e attività fisica, auto somministrazione di farmaci ipoglicemizzanti e insulina, automonitoraggio della glicemia. Quest’ultimo è importante nella gestione del diabete e consente al paziente di controllare la glicemia in ogni momento attraverso dispositivi semplici da usare e che richiedono appena una goccia di sangue. L’educazione del paziente all’autogestione e controllo permette agli individui con diabete mellito di diventare altamente responsabili della propria cura. Questo consente, in ultimo, di migliorare il controllo glicemico, ridurre le complicanze del diabete e aumentare la prospettiva di vita.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE:
HARRISON, PRINCIPI DI MEDICINA INTERNA XVIII EDIZIONE (2013);
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