2015-12-03



“O sacra notte, qual mai lungo corso persegui col tuo carro, sul dorso stellato del sacro etere”. Aristofane nonché massimo esponente della commedia attica antica sceglie questi versi per descrivere l’interminabile notte d’amore che l’infaticabile Zeus trascorse con Alcmena, dopo aver fermato il Carro del Sole per tre lunghissimi giorni, e che culminò nel concepimento del figlio prediletto Ercole. L’unico in grado di superare le dodici fatiche e consacrarsi come il più potente eroe della mitologia greca.

Ma perché, vi starete chiedendo, si scrive di dei ed eroi nella rubrica “corpo & mente”? Il motivo principale è che è parso interessante fare un tuffo nel passato per scoprire se e come gli antichi si dedicavano alle discipline sportive, prima fra tutte quella che per motivi di sopravvivenza, e di seguito sportivi, fu tra le più praticate: la lotta, nonché disciplina olimpica e antenata di quelle attività (come il pugilato e tutte le sue varianti) praticate in tutte le palestre del mondo.

Così ho riscoperto un mondo affascinante dove anfore idrie, vasi e sculture sono oggi i preziosi testimoni di civiltà che affidarono a loro, per virtù dei posteri, i segreti dei vari sistemi di combattimento. Un fenomeno che coinvolse perfino i più illustri letterati, da Platone a Omero, da Socrate a Erodoto, perché quegli invincibili atleti erano sì dotati di un corpo eccezionale, ma il loro spirito era guidato dagli dei. Una dedizione allo sport senza confini che sfociava in un legame indissolubile con la sfera del divino.

L’eroe che forse meglio incarna il modello di semi-dio fu proprio Ercole, che oltre alle dodici fatiche, fu protagonista di altre mille gesta eroiche, tra cui quella che lo vide battersi in duello con il gigante Anteo, alto ben tredici metri, figlio della terra e dalla ferocia inaudita.

Ercole ebbe la meglio sul gigante perché con una tecnica di lotta, specialità in cui eccelleva, riuscì a sollevarlo dalla madre terra da cui Anteo traeva tutta la sua forza, soffocandolo in una presa mortale. Così si narra nell’Antologia Palatina, una raccolta di epigrammi di oltre tremila poeti che vissero dal IV secolo a.C alla tarda età bizantina: “Chi lo plasmò quel bronzo che geme? Chi diede una forma al dolore e all’ardire, così bella? E’ una scultura viva quell’uomo che soffre, che pena! Grande il travaglio d’Anteo: nella morsa gli sta delle mani, s’inarca e sembra emettere un lamento”. Ma non solo.

Le testimonianze di questo epico scontro sono impagabilmente dipinte su vasi e anfore che risalgono circa al VI secolo a.C, e che sono custodite nei più celebri musei d’Europa. E’ il caso del vaso di Eufronio al Louvre di Parigi, dell’idria all’Antikensammlungen di Monaco, dell’anfora attica di Andòkides all’Antikenmuseum di Berlino, reperti archeologici di pregevole valore culturale e artistico, testimoni primari delle antichissime origine dei sistemi di lotta, per molti aspetti simili alle arti marziali orientali.

Facendo un balzo all’indietro di molti secoli, laddove perfino la nostra mente perde lucidità, si arriva all’Egitto del II millennio prima di Cristo. E di fronte alla tomba del faraone Beni Hassan, e non solo, si rinvengono oltre quattrocento immagini dipinte ritraenti scene di pancrazio, una variante cruenta della lotta sportiva che prevedeva anche calci, pugni, prese articolari tecniche di strangolamento. Tutto era permesso: fino alla lussazione o alla frattura delle ossa, senza però procurare la morte che era punita penalmente (se i lottatori erano cittadini liberi e non schiavi).

Insomma numerosissime sono le testimonianze che riportano il valore sportivo di una pratica che, come per i Greci, gli Etruschi e i Romani, assunse anche per l’Egitto un duplice valore, sportivo e sacrale. In quei tempi la lotta ebbe un significato così elevato da scomodare anche Erodoto che la fece conoscere al mondo antico e moderno nelle sue Panegirie.

Sistemi di competizione che non solo erano appannaggio dei militari, ma che avevano trovato pure una loro forma sportiva inserita poi in tante competizioni di altissimo livello, i Giochi Olimpici in primis. La prima gara di lotta venne disputata durante la diciottesima olimpiade della storia antica (708 a.C) e premiò come miglior lottatore Eurybatos di Sparta. E se dalla mitologia e dalle imprese belliche ci spostiamo alla storia dello sport della lotta, ecco un nuovo mondo, affascinante e sconosciuto.

Il primo agone documentato lo si trova nell’Iliade di Omero che narra così l’incontro tra Ulisse e Aiace Telamonio: “pensò inganno Odisseo, e al polpaccio riuscì a colpirlo da dietro, gli sciolse le gambe; cadde all’indietro Aiace e anche Odisseo sul petto gli cadde; la gente guardava e rimase stupita”. Al vincitore degli incontri andavano grandissimi onori, ricchezza ed una celebrità tale che in qualche caso servì pure a salvare la vita. Come accadde a Dioreo, campione olimpico di pancrazio nel V secolo a.C, il quale, catturato dagli Ateniesi durante una battaglia navale, venne liberato in segno di rispetto per la sua nota abilità sportiva.

Si credeva quindi che i lottatori fossero sì uomini mortali, ma che per vincere i Giochi del circuito (le Olimpiadi, i Nemei, gli Istmici e i Pitici) avessero comunque bisogno dell’influenza degli dei.
Non a caso il simbolo della vittoria, ancora oggi, è l’angelo alato Nike, ambasciatore di Zeus e Atena, facilmente riconoscibile su molti vasi e reperti mentre pone sul capo dei vincitori una corona di ramoscelli d’ulivo selvatico.

Traendo insegnamento dalla storia antica, la lotta viene interpretata come la forma più aulica di rispetto del corpo. Per gli atleti, l’applicazione nella lotta fungeva da connubio tra fisicità e spiritualità, seguendo un modello di vita che ancora oggi gli psicologi e i nutrizionisti prescrivono assiduamente.

Le parole di Aristofane assumono il tono di un discorso motivazionale dei nostri giorni: “sarai splendido e fiorente frequentando le palestre; correrai sotto gli ulivi, godrai la primavera. Se farai quello che ti dico avrai petto forte, colorito sano, spalle larghe… ma se invece praticherai gli usi del giorno, avrai colorito pallido, spalle strette, petto gracile”. Seneca, poi, s’improvvisa addirittura dietologo: “gli atleti hanno bisogno di molto cibo e di bere molto (da “Epistulae”); mentre Pitagora, da buon vegetariano, diffidava dal mangiare carne: “sbramano di carni solo i bruti… e insanguinato pasto agognano i feroci e i truculenti”. Più di un semplice invito ad avere una…

…mens sana in corpore sano.

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