2015-02-25



Sonia è una cara amica di Expatclic. Italiana, da anni divide il suo tempo tra l’estero e la patria. L’ultimo paese in cui ha vissuto, e con cui ha stretto profondi legami, è l’Egitto. Sonia ha fatto di Dahab la sua casa, che sta però per lasciare per nuove avventure. In questo lungo e coinvolgente diario ci racconta un viaggio al Cairo, pieno di osservazioni, sentimenti, confronti e scoperte. Grazie, Sonia, anche per le splendide foto. Chi volesse vedere tutta la produzione di Sonia, può visitare il suo sito: http://soniaserravalli.wix.com

Programma: recarsi al Cairo col bus pubblico da Dahab, incontrare il mio ragazzo sulla strada dopo il canale di Suez per unirsi a noi e, al Cairo, fare più foto possibili con la mia nuova reflex e visitare la Fiera del Libro, dove lui avrebbe dovuto anche incontrare un nutrito gruppo di amici egiziani da Facebook, appassionati come lui di lettura e scrittura (mosche bianche sugli ottanta milioni di egiziani).

Questo viaggio inizia con la prima sosta a Sharm la mattina del 30 gennaio, i suoi bagni putridi (tra i peggiori visti in nord Africa, nonostante si stia sempre cercando di attrarre turisti) e il ragazzino alla porta che sale sul cesso di fianco al mio per spiarmi. Sento dei rumori, ma mi rendo conto di quello che fa solo dopo, mentre mi lavo le mani. Che tristezza. Avrà sui quattordici anni al massimo. Lo vedo perduto come gran parte di questo paese, mangiato dall’ignoranza e dalla sporcizia. All’uscita, lo rincontro tra la folla e ha pure il coraggio di chiedermi un pound, che non gli do perché gli dico che i bagni sono luridi e che per un servizio così non pago. Sorvolo sul resto perché provo solo compassione, qui i ragazzini iniziano a essere uomini (frustrati) appena superati i dieci anni, quando potrebbero ampiamente essere miei figli.

Procediamo per il lungo viaggio, che se va bene dura sette ore, altrimenti perfino dieci, com’è capitato a me, a causa dei controlli ora più serrati prima del tunnel di Suez, a causa del fatto che era venerdì (non sapevo neanche la situazione che avremmo trovato al Cairo quel giorno né ormai mi interessava più) e a causa del fatto che la notte prima sono stati uccisi in un ennesimo attacco terroristico più di trenta ufficiali nel nord del Sinai.

Dopo ben due ore non previste fermi in coda prima del tunnel, riusciamo finalmente a recuperare Ahmed e arriviamo al Cairo col buio, già esausti. Scarichiamo baracca e burattini e prendiamo il primo taxi per la corniche sul Nilo dietro Tahrir, dove ci era stato indicato un ostello economico e apparentemente decente. L’accoglienza non è delle migliori: il palazzo ha un aspetto fatiscente e l’ostello non reca alcuna scritta sulla strada. Saliamo per due o tre piani con tutto il peso e troviamo una buia reception. Sapevamo che al Cairo è praticamente impossibile che ti lascino dormire donna e uomo nella stessa stanza (se uno dei due è egiziano), nonostante abbiamo la carta matrimoniale che in Sinai tutti riconoscono, nel resto dell’Egitto no, come se si trattasse di un altro paese. Lo sapevamo, ma mai al mondo mi sarei aspettata che mi indicassero per me una stanza al piano superiore e per lui una stanza situata prima ancora della reception, in modo che qualunque movimento per vederci sarebbe stato monitorato dal Cerbero di turno. Viviamo insieme da quasi due anni, la cosa fa un po’ ridere, sono appena arrivata e, a quarant’anni, mi sento trattare come manco i miei genitori hanno mai fatto quando ero adolescente. Non ci sono abituata e mi sembra di entrare in un film di cento anni fa.

Ci rechiamo insieme a vedere la mia stanza: un tugurio ancora più buio dell’ingresso, dall’aria stantia, due letti singoli di legno dell’anteguerra, non c’è internet, non c’è nessun colore né gioia, tutto è spento e nudo come in una celletta da suora di qualche monastero, ma sporca, così come le lenzuola segnate. Ahmed stesso dice di no prima che lo dica io, di solito più difficile e meno adattabile, ma esausta in quel momento. Lui stesso non sarebbe mai stato a dormire in un posto così lugubre. Dopo aver fatto il check in e tutte le registrazioni per niente, affamatissimi, ce ne andiamo e ci ritroviamo su una strada con tutti i bagagli alle otto di sera, senza sapere ancora dove dormiremo. Mi viene in mente di provare all’ostello dove ho soggiornato nel febbraio 2011, facendo foto ai tempi della rivoluzione sopra Tahrir dal mio balconcino, mentre i militari non mi lasciavano uscire. Lì mi ero sentita bene e le camere, anche se non lussuose, erano colorate, avevano una personalità e in quel vecchio palazzo signorile decaduto respiravo la storia.

Così facciamo. Il nome è cambiato (Museum View Hotel) e lo staff anche. Ci riceve un ragazzino tonto dell’Alto Egitto che non solo non capisce l’inglese, ma fa fatica a capire il nostro arabo. Ha sentito chiaramente che parlavo un’altra lingua, ma quando Ahmed ci fa registrare come “entrambi egiziani” per strappargli una camera unica, lui non fa una piega e ci crede. Ahmed mi fa segno di non parlare più che forse ce l’avremmo fatta. Poi, gli parla per cinque minuti, gli strappa pure un prezzo incredibile e si rende conto che si tratta di un’anima talmente ingenua da non poterlo fregare – anche perché a breve sarebbe arrivato un altro receptionist o il manager stesso e di certo si sarebbe accorto della trappola, e Ahmed stesso avrebbe rischiato di andare nei guai. Questo glielo feci presente io, sempre più preoccupata di essere la responsabile di suoi problemi legali in un paese che sta vivendo dentro un moderno orwelliano 1984, con pochi sconti.

Così, ci sistemiamo in due camere semplici ma carine, vicine, senza l’incubo di controlli di pattuglie di receptionist se solo avessimo voluto scambiarci due chiacchiere o il dentifricio. E io finisco esattamente dentro la stessa camera che è stata mia attorno al 20 febbraio del 2011, durante i prolungati festeggiamenti per la cacciata di Mubarak. Giorni di un’energia bellissima in quel luogo e da parte della gente, che non avrei ritrovato più a quattro anni di distanza e di guerriglie e di nuove dittature, ora rafforzate dal “fargliela pagare”.

Usciamo finalmente per la cena e scelgo il Felfela Restaurant, finalmente un luogo con un po’ di pace e di silenzio. Riusciamo anche ad entrare in un teatro e a parlare con un team di artisti – lo spettacolo di Tawfiq Al Hakim a cui tenevamo è stato posticipato, purtroppo. Quando rientriamo incontriamo il manager, un signore cairota gentile con un enorme bisogno di chiacchierare, che passa le sue serate in compagnia dell’unico altro ospite dell’ostello: un uomo cinese, lì per lavoro per lunghi periodi, che parla esclusivamente cinese. Il manager ci racconta di quanti personaggi famosi sono passati per quell’ostello e anche dello scrittore americano David Swingler (un egittologo che parla di poter rintracciare le voci dei tempi di Mosé nelle rocce…) che lascia addirittura i suoi bagagli lì da un soggiorno all’altro. Non sappiamo se credergli, ma suona affascinante e certamente il luogo fa sentire accolti come in una famiglia, come mi era capitato la volta precedente.

La notte sopra Piazza Tahrir è, più ancora di prima, una spedizione nel rumore, un lungo viaggio onirico attraverso suoni di traffico intenso, forti grida improvvise, sirene e misteriosi spari nel pieno della notte, quando non puoi neanche reagire per cercare di capire, e il giorno dopo, per una stanchezza intellettuale e sociale protrattasi per quattro anni, non ti interessa neanche più.

Murales intorno a Tahrir

La mattina, usciamo che sono quasi la dieci, ma nonostante questo dobbiamo svegliare il manager che venga ad aprirci, scoprendo così di essere chiusi dentro come in un fortino. Ahmed mi racconta di aver fatto qualche foto con le luci dell’alba dal suo balcone su Tahrir, ma che i militari, con grandi cenni delle braccia, gli avrebbero intimato di smetterla. Lui ha fatto loro segno di voler fotografare la piazza, non loro. Qualcuno dice che siamo in guerra, qualcun altro che ormai l’Egitto si avvia a un periodo di stabilità, ma in tutti e due i casi, l’esercito si sente sempre al centro del mondo. Che un viaggiatore sia lì per fotografare monumenti di cui non conoscono nemmeno l’importanza, non sfiora neanche più il loro pensiero. Ma chi è poi “l’esercito”? Perché non esistono solo il generale e i grandi ufficiali, dobbiamo ricordare che spesso si tratta solo di poveri ragazzini, che si sentono eroi e si sentono salvi perché dopo una leva disumana nel deserto senz’acqua e a mangiare serpenti, almeno adesso possono avere il lusso di farsi dodici ore al giorno immobili, dietro un mitra, dentro un carro armato in Piazza Tahrir.

Tra auto e persone urlanti e di corsa, andiamo a fare colazione nella storica pasticceria Groppi in Piazza Talaat Harb (piazza in cui cammineremo spesso e dov’è stata messa una piccola e innocua bomba di provocazione appena ieri dopo che eravamo partiti, comunque sempre una bomba). Groppi è per noi un’isola di pace nella storia, una porta aperta sul passato, sulla raffinatezza di una volta, la cultura di cent’anni fa, che cerchiamo con grande fatica di rintracciare tra la sporcizia e i modi rudi di oggi. Infatti, anche lì siamo circondati da urla concitate e piene di rabbia: quelle del capocantiere ai suoi operai appesi lungo le pareti dello stesso palazzo in cui sediamo. Sarà lo stesso spettacolo ogni mattina per i tre giorni a venire. Le persone si trattano a vicenda come fanno i cani. L’eleganza dei camerieri del Felfela e di Groppi sembra un baluardo di resistenza della classe e della bellezza contro l’orda della miseria e del degrado.

Ci rechiamo finalmente alla Fiera del Libro che sono le undici (oggi bomba nello stesso luogo…), dopo due autobus in cui il tuo senso dell’equilibrio viene messo a dura prova (per fortuna ero una campionessa sul Tagadà al luna park durante la mia adolescenza J ) e in cui tutti ci guardano come fossimo alieni. Nei tre giorni e mezzo al Cairo, avremmo visto in tutto cinque stranieri. Le cose sono cambiate e non poco. Sarebbe come immaginarsi Venezia o Bangkok senza turisti. Purtroppo, fuori dalla Fiera del Libro scopriamo non una, ma ben tre lunghissime code che si intersecano e riempiono l’intera piazza dell’area di Nasr City. Inizialmente, vedo solo la fila delle donne e quella degli uomini e di nuovo non cerco di trattenere la mia bile dall’esplodere: dico al mio compagno che qui devono essere tutti affetti da una malattia sociale profonda e che sono esausta che tentino di separarci in ogni momento, avrebbe quasi più senso viaggiare da soli. Lui concorda con tutto quello che dico e se ne vergogna pure, ma non ne è responsabile. Abbiamo avuto il privilegio di vivere per anni e fino ad ora nell’unica sacca di libertà e di serenità rimasta in questo paese: il Sud Sinai. Come si comportano nel resto dell’Egitto sembra alieno ad entrambi, e soprattutto, nei giorni che ci avrebbero aspettato, sempre più privo di una logica. Per fortuna, poi, in quella massa umana a togliere il respiro, sotto il sole che sale, troviamo anche la coda “mista”. Passeremo circa mezz’ora a trovarne la fine, con il temibile dubbio che si tratti di un circolo e che la fine non esista più. Siamo dentro un disegno di Esher, un romanzo di Kafka, oppure semplicemente dentro lo schema preciso della storia umana.

Coi suoi amici che lo aspettano già dentro ai vari appuntamenti, riusciremo a entrare ben due ore e mezza dopo, disidratati, tra spintoni, liti, urla – sembra la ressa per un mega concerto, non mi sarei mai aspettata una disorganizzazione del genere per un evento così importante in tutto il mondo arabo. Io sarei stata già pronta per andare a letto fino al giorno dopo, invece avrei dovuto scattare loro foto a ripetizione e a comando fino al tardo pomeriggio, perdendomi anche il primo tramonto al Cairo. Quello precedente, ce l’hanno fatto perdere trattandoci come dei cani durante il controllo bagagli a Suez, anche se l’ho visto, dietro i soldati armati: un sole rosso e d’oro che calava enorme sui deserti di questa passata civilizzazione. In quel momento, ho pensato come l’essere umano e solo lui sia riuscito e rendere inferno anche i luoghi tra i più belli del mondo. Nessun altro guardava il traboccante tramonto di Suez, tranne il mio compagno, in attesa di me, dall’altra parte del canale.

Alla Fiera, riesco a scattare foto al mio ragazzo con Ahmed Khaled Taufiq, Mohammed Khir, Hasen El Ghendi. Lui racconta a tutti che sono una scrittrice italiana, io cerco sempre di nasconderlo perché non sono sicura che il contenuto dei miei libri sarebbe apprezzato in Egitto, anzi. Il gruppo degli amici di Facebook è stupendo, ed è bellissimo vedere questi ragazzi disposti a tutto pur di allontanarsi dalla decadenza che si espande all’esterno e di avvicinarsi alla letteratura, al libero pensiero, all’esercizio dell’arte e della critica. Sono esausta ma comprendo la bellezza di questo incontro. Nel tardo pomeriggio, mi salvano due caffè di filato e un tè, che mi daranno l’energia per continuare a rollare fino all’una di notte. Uno dei nostri giorni al Cairo vale come una settimana a Dahab .

La sera, torniamo in ostello solo per una pausa-doccia prima di ributtarci nel delirio senza fine del Cairo. Troviamo di nuovo il manager egiziano con il cinese mentre si parlano in due lingue diverse nell’altra stanza, ci spiegano che si capiscono con la lingua internazionale del cuore, sono incredibili. Dunque usciamo, non so con quale energia, e la sera è tutta per me, perché Ahmed non sa come sdebitarsi per il servizio fotografico, di cui tutti i ragazzi del suo gruppo saranno entusiasti (e io continuo a non capire queste lodi, per foto fatte da uno zombie ambulante e nemmeno ritoccate). La notte prima, dopo tutta quella sporcizia e confusione, in sogno avevo avuto la visione di un palazzo del Novecento completamente candido. I miei occhi agognavano un po’ di rispetto per l’arte e di candore. Durante la passeggiata serale, Ahmed si ferma a contrattare per altri libri (ormai ne ha comprati una cinquantina), mentre io fotografo un uomo con bambino, che passa un incensiere fumante sulla bancarella per aumentarne le vendite. Poi, con nostra grande sorpresa, troviamo davvero una zona di candido gesso come nel mio sogno: un porticato in stile liberty che sembrava costruito ora. Ci avviciniamo, gli faccio un paio di foto, poi Ahmed mi chiede la Canon. Immediatamente, gli si avvicina un poliziotto sbucato dal nulla e gli chiede che stia facendo. Lui, come al solito, cade dalle nuvole e risponde con candore, spiegando che stava fotografando un portico e chiedendo cosa ci fosse di male. Al che, il poliziotto, coi soliti modi bruschi, esige la carta di identità e gli chiede di seguirlo. Faccio altrettanto, sentendomi di nuovo piombata nel libro 1984, come al Cairo capita quasi ogni giorno. Ci porta dall’altra parte della strada, sotto altri portici, dove siedono vari colonnelli e non so che di alto livello. In arabo spiega l’accaduto come se fossimo criminali, trattenendo la carta di identità di lui. Esordisco senza fargli prendere altro tempo, chiedendo se qualcuno lì in mezzo parlasse inglese. Uno su cinque, un po’ – è già una buona media. Ovviamente sono l’unica donna. Gli faccio con aria stupita: “Io sono una turista, questa è la mia macchina fotografica, è vietato fare foto al Cairo?” Spalanca gli occhi e in arabo esclama: “Turismo!” Effettivamente, visto che ne abbiamo incontrati tre su ventiquattr’ore, forse ormai si sono dimenticati cosa sia… Scambia ancora qualche parola con Ahmed, che ora racconta di essere la mia guida turistica da Dahab. Il poliziotto di prima chiede al suo superiore se deve restituire la carta di identità, lui annuisce e il primo uomo vuole anche che Ahmed gli mostri le foto fatte. Si trattava solo di quelle dell’ultima ora, soggetti per loro stupidi come una facciata del Novecento, cancelli misteriosamente divelti e legati ad alberi e l’uomo dell’incenso, che spargeva il suo fumo su una bancarella vendendo fortuna. Così, straniti dai miei gusti alieni, ci lasciano andare, mantenendomi ancora una volta nella massima incapacità di comprendere: esiste una legge che vieta agli egiziani di fotografare? No, però possono anche essere arrestati se lo fanno. Perché allora non emanano una maledetta legge, così che tutti possiamo sapere cos’è proibito e cosa non lo è? E’ di nuovo lo smarrimento di una logica. Se lo fanno senza rendersene conto, sono delle talpe. Se lo fanno come strategia per togliere senno ed energia al cittadino, sono dei geni. Credo che non esista sistema più avvilente.

Macchina fotografica come arma. Ci pensavo proprio in questi giorni, a come io mi senta armata di qualcosa di potente quando col teleobiettivo rubo visi, espressioni e momenti a tradimento da lontano. Anche militari. Soldati. I carri armati. Scopro poi che nel nostro ostello, che è situato proprio di fianco al Museo Egizio, hanno affisso cartelli che recano la scritta: “Per ragioni di sicurezza non fotografare il Museo Egizio.” A parte che sia io che il mio compagno la prima mattina abbiamo già scattato foto all’intera piazza, facendo sbracciare i soldati dai carri armati, come se Piazza Tahrir fosse solo questi stupidi uomini d’armi, ma quella sera il manager ci spiega che, per ragioni di sicurezza, anche l’albero che avevano di fianco è stato tagliato per non coprire le finestre dell’ostello. In pratica, fare foto può mettere la tua vita a repentaglio, non per il fatto di fotografare soldati in sé, divieto che vale comunque per le strade, ma perché potresti essere scambiato per un cecchino. Macchina fotografica come arma.

Come se non avessimo speso abbastanza energie, finiamo la serata con una lunga camminata attraverso Zamalek, dopo aver attraversato il Nilo con le sue luci. Ahmed mi compra dei fiori. Gli egiziani ridono di lui quando me li regge mentre scatto foto. In Egitto ormai tutto è proibito, in una fobia generalizzata che esaurisce (omofobia, paura di Dio, paura degli stranieri, paura del pensiero, paura della propria ombra). A Zamalek posso finalmente ritrovare l’albero che io chiamo “di Avatar”, un banyan enorme e antico a riempire una strada, possente come solo quelli che ho visto in Messico. Lo abbraccio, sentendo una carica d’amore difficilmente descrivibile ma realmente presente. Siamo insignificanti, e nella nostra insignificanza riusciamo anche ad essere spregevoli.

Gli orti botanici e i boschi di Zamalek, radunati in ordine sparso dietro vecchi e impolverati cancelli e inferriate, con la luna dietro, completamente ricoperti essi stessi di smog e di polvere, esercitano un fascino quasi mitologico e mi riportano ai libri di fiabe e ai luoghi di mistero e di magia, lontano dal traffico.

La sera in ostello, il manager ci sequestrerà ancora per parlarci a lungo dei passati fasti del Cairo e della storia.

Dopo l’accaduto di quella sera e di quei giorni, l’affastellarsi di condizioni di discriminazione verso il mio compagno, l’impossibilità di poter avere una camera unica, le code separate per le donne e per gli uomini, come lunghissimi serpenti che si temono, quella notte, un sogno allucinante e indimenticabile mi ha parlato. Uno dei sogni più simbolici della mia vita. Ma questa sarebbe una storia dentro la storia, lo conserverò per un racconto che devo elaborare presto. Il Cairo smuove sempre cose profonde (la mia prima volta, nel 2006, mi dava visioni gigantesche non appena chiudevo gli occhi).

Arriva la domenica. Quella mattina, da Groppi, passiamo quasi due ore a parlare del mio affascinante sogno, dei suoi significati e dell’incredibilità della mente. Ahmed, che di solito non ricorda quel che sogna, ha avuto la visione di me che all’alba entravo ad accertarmi che fosse in camera. Io non cammino nel sonno e abbiamo la prova che la sua porta non è mai stata aperta. Semplicemente, durante il sonno c’è stata una comunicazione. Certi sogni non sono solo sogni.

Prendiamo un taxi per la moschea di Amr Ibn El Ass, la prima in Africa. La nostra intossicazione procede, e se cerchi dei limoni per disintossicarti un po’ da quei fumi cancerogeni, fai fatica a trovarli perfino nei negozi di succhi freschi. Ahmed dice che i limoni devono avere paura di un posto tanto velenoso. Dopo Ataba, ci avventuriamo dentro la Cairo Islamica, la vecchia Cairo, e con nostra sorpresa troviamo tutto chiuso la domenica. Certo se potessimo rinunciare a cercare una logica in questo paese staremmo meglio… Compriamo i sottaceti torshi, una ricetta che risale all’era dei Faraoni, in una bottega storica trovata aperta e mangiamo fitir in un’ “osteria” di cinque metri quadrati, che nonostante le sue dimensioni ha ospitato grandi attori e artisti del passato. Documenterò tutto con le foto e le didascalie relative. Nessuno vuole essere fotografato, tutti si comportano come se stessimo rubando. Attorno a Tahrir la mattina mi avevano perfino proibito di fotografare del pane.

Naturalmente, la batteria della mia reflex si esaurisce appena prima del tramonto e non abbiamo ancora avuto il tempo di comprarne una di scorta. Allora, inizia la nostra corsa affannosa con tanto di breve tappa in ostello, ricerca in internet di un negozio di elettronica nell’area e inseguimento del tramonto sul Nilo. Non risparmiamo un pizzico d’energia. Incredibile ma ce la facciamo, prima del tramonto siamo su una feluca nel centro del fiume. Mi rendo conto che è l’unico punto di pace in cui si può scappare, oltre a El Azhar Park, dove fotograferemo il tramonto successivo. Secondo me, la cosa migliore rimasta del Cairo sono proprio i suoi tramonti. La sabbia del deserto e l’inquinamento causano una rifrazione della luce, ogni sera, che rende tutto color ocra e oro. Sempre.

La sera cena nel famoso ristorante di koshari Abu Tarek, vicino al nostro ostello. Siamo cotti. Ci aspetta un’altra notte, la terza ed ultima, accompagnati dalle incursioni dei rumori di Tahrir. Ancora grida, ancora spari, ancora misteri, guerra, matrimoni a tutto volume, ancora milioni di persone che come formiche si muovono ad ondate tutte insieme, ventiquattr’ore su ventiquattro. Il giorno dopo, nessuno commenta, nessuno chiede, non si sa più niente. Certe cose sono belle solo da scrivere. Viverle è diverso.

La fermata della metro di Tahrir è stata chiusa da tanto tempo per i soliti “motivi di sicurezza” e questo contribuisce a congestionare la metropoli a dei livelli mai visti prima. Quando passiamo da una metro all’altra, diventiamo parte di un’ondata umana e senti che non puoi più decidere niente. Lo trovo divertente, anche se ne sento la portata terrificante. Vogliamo acquistare i biglietti per il viaggio notturno in bus per Dahab, ma un minibus ci porta nella direzione sbagliata facendoci perdere un’ora dell’ultimo giorno e mezzo polmone di corse in un traffico estremo. Il Cairo è l’esplosione demografica che implode su se stessa. Non so come tutte queste persone potranno vivere da qui a dieci, vent’anni. Ho un altro episodio di rabbia sessista contro quei bastardi del minibus, mentre io la direzione la sapevo ma nessuno ha voluto ascoltarmi. Il mio compagno tace e acconsente, facendomi sempre sentire piccola: lui viene da un altro mondo come un loto nel fango e non si può né si vuole colpire.

Mangiamo in qualche buio Gad senza finestre con suo cugino che ci raggiunge e, finalmente, riusciamo a passare due ore nel parco dell’Azhar per il tramonto. Per questo, parleranno le mie foto. Il tassista sente le nostre storie di quei giorni e non vuole una lira. A volte gli angeli nascono nei posti sbagliati e nel fango.

Anche nel visitare la moschea di El Hossein (tutti posti in cui siamo già stati prima) ci separano. Dentro l’ala di moschea femminile, sento un’energia così forte provenire da tutte quelle donne insieme, che mi inginocchio due minuti ad assaporarla. Se solo queste donne si unissero e divenissero consapevoli della loro forza, potrebbero rovesciare il dannato sistema maschile mediorientale e anche le loro guerre, sempre imposte da uomini. Una di loro mi offre dei dolcetti. Un’altra mi insegue per chiedermi sempre e solo, nel suo fiero inglese, se può aiutarmi. Ha incontrato un’aliena e non può farsi sfuggire l’occasione di intercettarla e di praticare un po’ di inglese.

A parte questi sporadici e struggenti incontri con persone dall’animo davvero gentile (l’uomo della feluca, il tassista generoso, le due donne della moschea, due madri mendicanti, il manager dell’ostello) il trattamento generale che gli uomini del Cairo ci hanno riservato è stato aggressivo, rude, scostante, insensato. E’ la prima volta che, dopo aver promosso questo paese per anni, arriviamo a pensare che queste persone il turismo non se lo meritano. Peccato che a pagare saranno le persone gentili.

Non so se, dopo le mie cinque volte, tornerò ancora al Cairo. Abbiamo i polmoni che bruciano e l’interno delle narici ferito e nero, la gola secca, la tosse, le labbra rotte dallo smog. Comunque, ho un bottino di foto. Il nostro pullman è a mezzanotte e un quarto. Ci arriviamo stremati, cercando di finire di vedere le centinaia di foto fatte. Speravamo di stancarci al massimo per poi dormire, ma… numero uno: proprio dietro i nostri sedili sale una mamma con bambino e, anche se per questo litigo sia con lei che col bigliettaio, ci viene imposto di viaggiare con la spalliera verticale tutta la notte; numero due, per tutte le ore del viaggio verranno trasmessi i soliti film tipici dei pullman egiziani, ossia solo ed esclusivamente urla aggressive e spari – e ripeto, per tutta la notte (mi viene da pensare alle tecniche per far impazzire e confessare i prigionieri); numero tre, oltre l’una di notte l’autista riaccende tutte le luci di botto e, con un microfono dotato di eco, invita tutti i musulmani sul bus a pregare per il viaggio, facendo saltare in aria tutti dallo spavento. A parte che è evidente che la preghiera non è servita a facilitarci il viaggio, ma poteva anche pensarci prima. Numero quattro: un nuovo posto di blocco dopo Suez ci fa perdere di nuovo oltre un’ora di attesa non prevista, con l’aggravante che tutto quel tempo buttato è di nuovo e sempre inutile e privo di logica, visto che poi, sia all’andata che al ritorno, non vengono mai controllati i bagagli a mano dentro il pullman. Numero quattro: abbiamo bisogno di un bagno, ma quello del pullman ovviamente non funziona e il primo disponibile sarà dopo il check point con la coda. Numero cinque: per l’intera ora di attesa a vuoto, il bus ci soffocherà di gas di scarico compresso all’interno senza farci uscire perché “siamo in un’area militare”. Ahmed chiede all’ufficiale che ci controlla i documenti perché abbiamo visto dei pullman passarci davanti e noi stiamo ancora aspettando. La risposta dell’ufficiale tuona: “Perché io voglio così.” Ovvio. Quindi, questo paese per l’ennesima volta ci lascia senza un perché. Orfani di un senso. Eredi di una nuova sconosciuta inospitalità. Mi ero riproposta di approfondire la storia degli ultimi quattro anni vissuti qui, di capire i rami misteriosi e oscuri che ha poi preso la rivoluzione, di sondare i pezzi che mi sono persa. Ma dovrò evidentemente rinunciarci: ogni volta che ci provo, anziché trovare risposte mi danno solo come bagaglio per andarmene un’altra decina di domande.

Arriviamo a Dahab alle dieci anziché alle sette, orario previsto forse nei tempi in cui viaggiare in Egitto non era ancora stato trasformato in una specie di incubo, per “ragioni di sicurezza”, che ti amministrano sapientemente come veleno in vena. Ci chiediamo per quanto tempo ancora Dahab riuscirà a rimanere oasi, occhio del ciclone, angolo di pace dentro l’invisibile guerra, comunità mista e libera.

Ringrazio le belle immagini che il Cairo mi ha dato o che le ho rubato e ringrazio gli sporadici angeli incontrati sulla strada per farci luce, tra un passaggio e l’altro. Persone la cui grandezza di cuore non può nemmeno venire vista al Cairo, tanto la sovrasta.

Grazie a chi mi ha letto per avere condiviso questo viaggio con noi

Sonia Serravalli

Dahab, Egitto

Febbraio 2015

Show more