2015-09-07



Sono davanti a uno schermo che pro­ietta un video. Stanno tor­tu­rando un uomo di cui ignoro l'identità. Un canale tele­vi­sivo mi ha invi­tato a inter­ve­nire a una tra­smis­sione poli­tica che andrà in onda a breve. Hanno improv­vi­sato una scena per le riprese all'interno di un uffi­cio e, di fronte a una tele­ca­mera, ascolto le domande che mi ven­gono poste sulla vio­lenza estrema, e più pre­ci­sa­mente sulla vio­lenza cri­mi­nale.

Rispondo al mio inter­lo­cu­tore espo­nen­do­gli quella che chiamo «tesi Son­tag»: sì, dob­biamo accet­tare che le imma­gini atroci ci per­se­gui­tino (1). Ci per­met­tono di cono­scere meglio noi stessi. La cen­sura fa gli inte­ressi di una realtà mani­po­lata che occulta gli abusi, l'inadeguatezza, l'inefficacia e l'irresponsabilità delle auto­rità.

Ter­mi­nata l'intervista, mi chie­dono di sedermi di fronte a uno schermo per guar­dare alcune imma­gini. La stessa tele­ca­mera che ha regi­strato le mie rispo­ste è ora posi­zio­nata di fronte a me. La coer­ci­zione è fla­grante. Mi ven­gono in mente il cineoc­chio di Dziga Ver­tov e i suoi pre­cetti (obiet­ti­vità, spon­ta­neità, pre­ci­sione, imma­gini grezze sot­to­po­ste a un suc­ces­sivo mon­tag­gio) e accetto la sfida per­ché capi­sco subito che la tappa che sta ini­ziando è una spe­cie di prova a cui dovrò pre­starmi. Men­tre mi acco­modo, le imma­gini scor­rono. Mi vedo come quel per­so­nag­gio del film Aran­cia mec­ca­nica di Stan­ley Kubrick che subi­sce una tera­pia volta a far­gli pro­vare, con l'esposizione a scene di una vio­lenza inau­dita, un sen­ti­mento istin­tivo di rifiuto.

Osservo le imma­gini. In un luogo inde­fi­nito, vasto e ben illu­mi­nato, qual­cuno è appeso al sof­fitto per i piedi. La sua cor­pu­lenza lascia imma­gi­nare che si tratti di un uomo; è com­ple­ta­mente rico­perto da una pla­stica o da una tela gri­gia; i suoi piedi, le sue ginoc­chia, la sua vita e il suo collo sono legati con del nastro ade­sivo argen­tato. Una mezza doz­zina di sicari in uni­forme di tipo mili­tare, coperti da pas­sa­mon­ta­gna neri, armi alla mano, lo cir­con­dano. Stanno aspet­tando di tor­tu­rarlo. Uno di loro, pro­ba­bil­mente il capo, dirige l'azione. La qua­lità sonora della regi­stra­zione è pes­sima. La vit­tima intui­sce il peg­gio e si agita dispe­ra­ta­mente. Grida o geme.

I miei occhi si sosti­tui­scono alla tele­ca­mera che immor­tala la scena – ciò che regi­stra la mac­china che mi filma come osser­va­tore. Trompe-l'œil davanti all'anormalità. Il capo dei sicari al posto del pas­sa­mon­ta­gna indossa la maschera dell'orrore bianca e nera di Puni­sher (il “Puni­tore”, creato dalla Mar­vel Comics), per­so­nag­gio che minac­cia, gesti­sce atti­vità di rac­ket, seque­stra, tor­tura e uccide. Nel fumetto, sotto la maschera di Puni­sher – un teschio con orbite feline e una larga mascella – si nasconde un esperto di arti mar­ziali, di armi, di anti­ter­ro­ri­smo e di tat­ti­che mili­tari che vuole ven­di­carsi degli assas­sini della sua fami­glia. L'adattamento a cui assi­sto non com­porta alcun tipo di effetti speciali.

A fianco del capo, un sica­rio svolge fun­zioni da assi­stente e bran­di­sce un machete. Entrambi si avvi­ci­nano alla vit­tima all'altezza dei geni­tali. L'emasculazione ha ini­zio. La vit­tima è in preda alle con­vul­sioni. Le sue urla sem­brano lon­tane. I sicari but­tano in terra l'organo appena moz­zato, il san­gue cola, forma una pozza, men­tre gli altri discu­tono, con­cen­trati sull'atto di tor­tura. La tele­ca­mera cerca di cap­tare le mie rea­zioni. Ma io sco­pro il suo gioco e resto immo­bile senza bat­ter ciglio, con­cen­trato sulle imma­gini. Ci sono den­tro.

Si impone nella memo­ria il ricordo della notte in cui sono stato seque­strato e tor­tu­rato a Città del Mes­sico. Un gruppo di cri­mi­nali, a suon di minacce e colpi, voleva met­ter fine alle mie inchie­ste gior­na­li­sti­che sugli assas­si­nii delle donne al con­fine tra il Mes­sico e gli Stati uniti. Come ho rife­rito nel mio libro Ossa nel deserto (2), sono stato attac­cato la sera del 15 giu­gno 1999, men­tre ero su un taxi che mi ripor­tava a casa.

Durante il tra­gitto, il taxi si è improv­vi­sa­mente fer­mato sul lato della strada. Due indi­vi­dui armati si sono avvi­ci­nati. Mi hanno ordi­nato di chiu­dere gli occhi e di spo­starmi nel posto cen­trale del sedile. Il taxi è ripar­tito; l'autista era com­plice. Potevo par­lare solo se mi pone­vano domande. Sulla base dei docu­menti che avevo addosso hanno veri­fi­cato chi fossi e che fossi effet­ti­va­mente un giornalista.

Ho subito insulti e rice­vuto colpi sul petto, sul volto e sulla testa, inferti con il cal­cio dei revol­ver. Mi hanno detto subito che mi avreb­bero fatto fuori in un ter­reno abban­do­nato a sud della capi­tale. Il taxi si è nuo­va­mente fer­mato per lasciar scen­dere uno dei due indi­vi­dui e per farne salire un altro – che veniva chia­mato «capo». Per circa un'ora quest'ultimo mi ha asse­stato pugni e gomi­tate e minac­ciato di stu­pro e di morte; poi, con un taglia ghiac­cio, mi ha inciso le cosce.

Il pas­sag­gio, non lon­tano, di una pat­tu­glia con i lam­peg­gianti accesi, che ho potuto intra­ve­dere dalle pal­pe­bre abbas­sate, ha dis­suaso i miei aggres­sori dal con­ti­nuare la loro infame opera. Mi hanno ordi­nato di asciu­garmi il san­gue che mi colava sul viso e mi hanno abban­do­nato in una via deserta all'interno della stessa zona in cui mi ave­vano pre­le­vato, poi mi hanno impo­sto di non dire nulla e di non denun­ciarli. Appena sono stato in grado, sono andato a spor­gere denun­cia. Ma le auto­rità l'hanno lasciata cadere.

Al momento del seque­stro, nella mia vita si è aperta una brec­cia, ine­so­ra­bile, che resterà lì anche dopo di me. Essere ber­sa­glio di un atto cri­mi­nale, di un abuso, di un'atrocità segna irre­ver­si­bil­mente e per sem­pre l'esistenza. Quando un fatto vio­lento spezza il quo­ti­diano di una per­sona, si pro­duce un'«anamorfosi», per­ché la vita subi­sce un'alterazione e si impone un cam­bia­mento per­verso della realtà: la caduta nell'abiezione.

Dopo quest'aggressione, ho ini­ziato a sof­frire di disturbi di memo­ria e di lin­guag­gio, a causa dei colpi rice­vuti. È stato dia­gno­sti­cato un ema­toma col­lo­cato tra il cer­vello e il cra­nio. Ho subito un inter­vento chi­rur­gico d'urgenza. Dopo un po' di tempo, ho ripreso le mie inchie­ste e, pochi mesi dopo, sono stato vit­tima di un secondo rapi­mento con minacce della stessa natura: il «coman­dante» mi con­si­gliava di fare atten­zione; io «capivo benis­simo» a cosa si allu­deva. «Non la pic­chie­remo», mi hanno detto, «noi non ci dro­ghiamo». Non hanno fatto altro che tor­tu­rarmi psi­co­lo­gi­ca­mente, ripe­ten­domi costan­te­mente: «Il coman­dante ha ordi­nato di dirle di fare atten­zione, ha capito bene?». È durato più di un'ora. Poi mi hanno libe­rato in mezzo a una strada vie­tan­domi di voltarmi.

Ho comun­que por­tato avanti le mie ricer­che desti­nate a denun­ciare le com­pli­cità tra fun­zio­nari, poli­ziotti, cri­mi­nali e quanti deten­gono il potere nella regione vicina alla fron­tiera. Le auto­rità mes­si­cane hanno rifiu­tato di inda­gare sulle infor­ma­zioni che avevo comunicato.

Alla pub­bli­ca­zione del mio libro Ossa nel deserto, hanno nuo­va­mente minac­ciato di farmi spa­rire e di ammaz­zarmi. Nono­stante tutto, penso che, fino ad oggi, ho avuto for­tuna. Dal 2000, almeno 84 gior­na­li­sti sono stati assas­si­nati in Mes­sico. L'annuncio della loro morte è stato accolto dall'indifferenza più assor­dante. I cri­mini restano impu­niti. Quest'offesa fatta alle vit­time impone che ci si inter­ro­ghi sui fon­da­menti stessi dello Stato e che si ricordi che, senza i gior­na­li­sti, non c'è gior­na­li­smo pos­si­bile. La loro vita è quanto vi sia di più prezioso.

La guerra con­tro il traf­fico di droga in Mes­sico ha cau­sato tra le 70.000 e le 120.000 vit­time, tra morti e scom­parsi (la stessa incer­tezza sulla cifra è parte inte­grante del pro­blema). Ognuna di que­ste vit­time dà alla nozione di «ana­mor­fosi» un pro­prio signi­fi­cato particolare.

La tor­tura che con atten­zione con­ti­nuo a guar­dare non ha niente a che vedere con la let­te­ra­tura: sono testi­mone di un rituale bar­baro che ha per scopo la dif­fu­sione di uno stato di panico e l'esibizione di una supre­ma­zia ven­di­ca­trice. Vicino a me, il came­ra­man mani­pola il suo obiet­tivo e, me ne rendo conto dai suoi gesti, fa un primo piano dei miei occhi.

Rimango impas­si­bile. Nella scena pro­iet­tata i sicari deca­pi­tano la vit­tima con una moto­sega; il suo corpo non è altro che una massa di carne con­vulsa. Gli assas­sini por­tano a ter­mine il pro­prio com­pito in pochi secondi e mostrano alla tele­ca­mera la testa moz­zata della vit­tima. Il collo sgoc­ciola san­gue. Le imma­gini si dis­sol­vono sullo sfondo nero. E piomba il silen­zio; la prova è finita. In que­sto momento ricordo di esser stato io stesso una vittima.

Nel mio libro El hom­bre sin cabeza (3) ho ripor­tato un'intervista con un sica­rio spe­cia­liz­zato in deca­pi­ta­zioni. Ho potuto entrare in con­tatto con lui gra­zie a un inter­me­dia­rio che entrambi cono­sce­vamo. Il risul­tato è una testi­mo­nianza sor­pren­dente sulle pra­ti­che rituali della vio­lenza sotto la pro­te­zione della Santa Muerte, un culto popo­lare dif­fuso tra traf­fi­canti di droga, mili­tari, cri­mi­nali, emar­gi­nati e poveri nelle zone peri­fe­ri­che del paese.

Nel caso spe­ci­fico di que­sto sica­rio, come ha egli stesso rac­con­tato, dopo la deca­pi­ta­zione, viene rac­colto un cam­pione di san­gue in una boc­cetta come offerta per la ceri­mo­nia detta «alla Santa Muerte», in pre­senza del capo del gruppo criminale.

Nell'ottobre 2014, in un chio­sco di gior­nali, mi cade l'occhio su una rivi­sta che in prima pagina riporta: «Aste­nersi animi sen­si­bili». Me ne pro­curo una copia e, arri­vato in uffi­cio, con la rivi­sta aperta davanti a me, con­tem­plo le imma­gini di vio­lenza estrema di cui sono piene le pagine.

Ciu­dad Juá­rez, Stato di Chi­hua­hua: tre uomini e una donna giac­ciono morti sul bordo di una strada, cir­con­dati dai medici legali. Cuer­na­vaca, Stato di More­los: un uomo è steso al suolo, il capo e le mani bloc­cati da un nastro ade­sivo, con le mani giunte come in un gesto di pre­ghiera. Urua­pan, Stato di Michoa­cán: sul fianco di una mon­ta­gna, a ridosso di una strada, una decina di corpi insan­gui­nati for­mano una sorta di tumulo. Culia­cán, Stato di Sina­loa: su una scala vicina a un mar­cia­piede, ven­gono ritro­vati morti due uomini; la loro posi­zione indica che hanno pro­vato a fug­gire e la loro carne è dila­niata da pro­iet­tili di grosso cali­bro. Boca del Río, Stato di Vera­cruz: una ven­tina di uomini e donne giu­sti­ziati; sono stati ritro­vati su una strada, nudi o par­zial­mente sve­stiti, con mani e piedi legati dal nastro ade­sivo. Tor­reón, Stato di Coa­huila: quat­tro teste moz­zate sono alli­neate sul cofano di una mac­china. Mérida, Stato di Yuca­tán: un ammasso di cada­veri deca­pi­tati si con­fonde con altri corpi avvolti in coperte e i tatuaggi delle vit­time sono indi­stin­gui­bili dai motivi dei tes­suti. Oaxaca, Stato di Oaxaca: la testa di un uomo è stata posata in mezzo a un ponte pedo­nale su cui è stato scritto un mes­sag­gio di minac­cia rivolto al gruppo rivale. Carne dila­niata, san­gue che cola, muti­la­zioni, abiezioni.

La vio­lenza estrema dei rego­la­menti di conti tra cri­mi­nali e traf­fi­canti di droga è stret­ta­mente legata alla sub­cul­tura della vio­lenza dello Stato stesso, che include cor­ru­zione, inef­fi­cienza, negli­genze e irresponsabilità.

Men­tre riflet­tevo a tutto que­sto, i media hanno ripor­tato quasi simul­ta­nea­mente tre fatti che con­fer­mano il radi­ca­mento dell'«anamorfosi» nel mio paese:

1) L'esecuzione di almeno 15 per­sone in un cosid­detto scon­tro tra 22 pre­sunti delin­quenti e l'esercito mes­si­cano a Tla­tlaya, Stato del Mes­sico, il 30 giu­gno e il 1° luglio 2014. L'inchiesta sem­bra attri­buire la respon­sa­bi­lità a un uffi­ciale e tre sol­dati (sui sette coin­volti).

2) Il seque­stro, la tor­tura e l'assassinio di sei stu­denti a Iguala-Ayotzinapa (4), Stato di Guer­rero, e la scom­parsa di 43 stu­denti il 26 e il 27 set­tem­bre 2014, in cui sono impli­cati poli­ziotti e cri­mi­nali, con la com­pli­cità di rap­pre­sen­tanti delle isti­tu­zioni locali.

3) Nel corso dell'estate 2014, sono stati sco­perti 46 corpi, tra cui quelli di 16 donne, nel corso del dre­nag­gio di un canale a Eca­te­pec, Stato del Mes­sico, molto vicino alla capi­tale del paese. Quando è emersa la noti­zia, le auto­rità hanno cer­cato di mini­miz­zare i fatti o di farli pas­sare sotto silenzio.

Ognuno di que­sti avve­ni­menti pre­senta delle pecu­lia­rità che meri­tano di essere bre­ve­mente esa­mi­nate. In Mes­sico, le forze armate hanno l'abitudine di pra­ti­care la tor­tura e di vio­lare i diritti umani, come hanno denun­ciato diverse orga­niz­za­zioni inter­na­zio­nali o civi­che. Un bat­ta­glione di sol­dati può aprire il fuoco su un gruppo di pre­sunti delin­quenti, facendo cre­dere che la loro morte sia la con­se­guenza di uno scon­tro; può fal­si­fi­care la scena del delitto, met­tere delle armi nelle mani delle vit­time, spo­stare i corpi e minac­ciare di morte i soprav­vis­suti o i testimoni.

Il san­gue che ha inzac­che­rato i muri e i colpi d'arma da fuoco a bru­cia­pelo denun­ce­ranno le ese­cu­zioni, come la voce del testi­mone soprav­vis­suto resti­tuirà la verità. L'accusa, for­mu­lata a mezza voce o fer­ma­mente, diventa un grido stra­ziato, quanto il ran­tolo delle vit­time o la pena della fami­glia che apprende la morte abietta di un suo caro.

La morte vio­lenta mette soprat­tutto in luce lo spet­ta­colo della bar­ba­rie che in molti vogliono fug­gire o cer­cano di non guar­dare né ascol­tare. Si opterà per la cen­sura, il silen­zio, un velo ele­gante o tri­viale steso sulla cru­deltà, come un pre­cetto etico ed este­tico, che equi­vale a col­la­bo­rare con que­sta bar­ba­rie assi­cu­ran­dole la perpetuazione.

Le mac­chie di san­gue restano, con i loro con­torni inde­fi­niti, incro­state nei muri o nelle pie­tre, incu­ranti del tempo che passa. Pur cer­cando di pulirle, resterà un alone sot­tile e incan­cel­la­bile. La pol­vere si dis­solve, il lampo si perde nell'eco del tuono, ma il san­gue impre­gna tutta la natura e la memo­ria umana.

Durante il seque­stro, il pestag­gio, la tor­tura, la scom­parsa e l'omicidio degli stu­denti di un isti­tuto magi­strale dello Stato di Guer­rero, il caso di Julio César Fuen­tes Mon­dra­gón ha atti­rato la mia atten­zione. Que­sto ragazzo, ter­ro­riz­zato dai poli­ziotti che spa­ra­vano con armi da guerra su lui e i suoi com­pa­gni, si era messo a cor­rere dispe­ra­ta­mente, per cadere alla fine nelle mani di altri poliziotti.

Il suo corpo è stato sco­perto alcune ore più tardi in una zona indu­striale di Iguala. Gli ave­vano strap­pato un occhio e la pelle del viso ed era morto per una frat­tura cra­nica. L'«anamorfosi» è il rebus sel­vag­gio che crea e iden­ti­fica la vit­tima e il vit­ti­ma­rio: ti strappo gli occhi per­ché tu non mi veda, per­ché tu non veda cosa ho fatto di te, per­ché tu stesso non possa vederti nel tuo ultimo istante, né capire cosa sto per farti. Il mio ano­ni­mato è il tuo, ti separo dal tuo viso e ti tra­sformo in me stesso.

Dopo molti anni, mi sem­bra evi­dente che la vita pub­blica mes­si­cana si svolge in un'architettura abietta creata dai suoi poteri eco­no­mico e poli­tico. L'attuale crisi ha le sue radici nella moder­niz­za­zione dell'economia e dello Stato risa­lente agli anni '80 (5).

All'inizio del 1982, sono stati sco­perti 12 corpi nel bacino prin­ci­pale dell'impianto di depu­ra­zione del fiume Tula, nello Stato di Hidalgo, vicino alla capi­tale del paese. Le vit­time appar­te­ne­vano tutte a una rete di ori­gine colom­biana che traf­fi­cava in cocaina a Città del Mes­sico e rapi­nava banche.

Sotto la dire­zione del capo della poli­zia della città, degli agenti, con la stessa for­ma­zione della poli­zia fede­rale, hanno arre­stato 20 delin­quenti. Ne hanno libe­rati otto in cam­bio di soldi. Quanto agli altri 12, li hanno pestati e tor­tu­rati per diversi giorni, prima di giu­sti­ziarli e get­tare i loro corpi nelle acque di scolo.

Trent'anni dopo, que­sto stesso modus ope­randi si ripete giorno dopo giorno in Mes­sico. Decine di migliaia di per­sone, mes­si­cani e cit­ta­dini di altri paesi dell'America cen­trale, sono scom­parse senza che le auto­rità abbiano mai aperto un'inchiesta uffi­ciale. L'architettura abietta attira le sue vit­time, le sot­to­mette in anti­cipo, le getta nelle sue anfrat­tuo­sità, le can­cella com­ple­ta­mente e, il più delle volte, fa spa­rire ogni trac­cia del loro pas­sag­gio. La col­lu­sione tra l'apparato isti­tu­zio­nale e il cri­mine orga­niz­zato distrugge tutto, anche la memoria.

La sco­perta dei 46 corpi in un canale di dre­nag­gio nell'estate 2014, sta­bi­li­sce una cer­tezza: nono­stante i cam­bia­menti ope­rati recen­te­mente nella poli­zia e nel set­tore giu­di­zia­rio, le atro­cità con­ti­nuano. L'impunità pro­ietta la sua luce gri­gia o nera e il man­cato rispetto dei diritti umani è per­ma­nente (6).

La situa­zione in Mes­sico non è un film che con­trap­pone buoni e cat­tivi, poli­ziotti e ladri. Tutto lo Stato è impli­cato, e la gra­vità dei fatti ha una por­tata gene­ra­zio­nale che le classi diri­genti e anche molti intel­let­tuali pre­fe­ri­scono ignorare.

Parole che sem­bra­vano can­cel­late dal nostro quo­ti­diano tor­nano a essere pro­nun­ciate: san­gue, pro­iet­tili, guerra, poli­zia, eser­cito, assas­si­nati, scom­parsi, morte, peri­colo, male, ter­rore, bar­ba­rie. Come tutti sanno, ogni strappo pro­fondo implica un epi­so­dio trau­ma­tico oltre a un periodo di lutto che ha due aspetti: la cer­tezza che la spe­ranza – di un vero paese cosmo­po­lita e moderno, di una grande armo­nia este­tica, senza dispa­rità – sia persa, per­ché eter­na­mente delusa; e il pro­cesso di accet­ta­zione di una realtà con­trad­dit­to­ria, inde­si­de­ra­bile, imbarazzante.

Il poeta mes­si­cano Javier Sici­lia ha rinun­ciato alla sua atti­vità poe­tica nel dire addio a suo figlio Juan Fran­ci­sco, assas­si­nato nel 2011 dal cri­mine orga­niz­zato: «Non c'è più niente da dire / Il mondo non è più degno di parola / Ce l'hanno sof­fo­cato dall'interno / Come ti hanno asfis­siato / Come hanno stra­ziato i tuo pol­moni / Il dolore non mi lascia più / Il mondo soprav­vive solo gra­zie a una man­ciata di giu­sti / Gra­zie al tuo silen­zio e al mio / Juanelo».

Que­sti versi fanno rife­ri­mento all'episodio dei Giu­sti nella Genesi (XVIII, 28–32), che sfug­gono alla cata­strofe finale, ma anche all'idea di Theo­dor Adorno sull'impossibilità di fare della poe­sia dopo Ausch­witz. Una rispo­sta stret­ta­mente per­so­nale per­ché, se inter­pre­tata in senso let­te­rale, cor­ri­spon­de­rebbe a negare il valore tra­scen­dente essen­ziale della parola che soprav­vive a qual­siasi atto di bar­ba­rie.

Nel 2014 è stato sco­perto un cen­ti­naio di ossa nelle fosse clan­de­stine dello Stato di Guer­rero; e, nel 2015, sono stati indi­vi­duati 60 cada­veri in stato di decom­po­si­zione in un cre­ma­to­rio abban­do­nato nella città di Acapulco.

Que­sti due nuovi avve­ni­menti ci obbli­gano a ripen­sare e a denun­ciare ener­gi­ca­mente la tra­sgres­sione di tutti i limiti da parte dello Stato e del governo mes­si­cani: la loro per­mis­si­vità e le loro negli­genze di fronte al cri­mine orga­niz­zato, la loro tol­le­ranza verso lo ster­mi­nio. Dal 2012, in Mes­sico, ogni due ore scom­pare una persona.

La cul­tura, neces­sita di tempo e di memo­ria. Que­ste migliaia di per­sone giu­sti­ziate o scom­parse nei lun­ghi anni di guerra e vio­lenza che segnano l'inizio di un nuovo secolo meri­tano un rico­no­sci­mento uffi­ciale degno di que­sto nome e a livello internazionale.

In futuro, se mai si dovesse per­dere il ricordo di tutte que­ste vit­time della bar­ba­rie, ci saranno tutti i rac­conti, le cro­na­che, le testi­mo­nianze, i romanzi, i saggi, i poemi, i film, le foto­gra­fie, la musica; tutte que­ste opere d'arte, tutte que­ste pub­bli­ca­zioni si impor­ranno come prove indi­spen­sa­bili per rie­vo­care que­sta tra­ge­dia tanto per­so­nale quanto col­let­tiva. È nostro dovere, per quanto mode­sto possa essere il nostro impe­gno, rico­no­scere l'esistenza di ognuno di que­sti morti. Senza il ricordo per­ma­nente della loro pre­senza, il futuro sarà per noi tutti impos­si­bile. In attesa, è indi­spen­sa­bile la vita, di cui dob­biamo assu­merci la difesa.

(1) Susan Son­tag, Davanti al dolore degli altri, Milano, Mon­da­dori, 2003.

(2) Ser­gio Gon­zá­lez Rodrí­guez, Ossa nel deserto, Milano, Adel­phi, 2006.

(3) Ser­gio Gon­zá­lez Rodrí­guez, El hom­bre sin cabeza, Bar­cel­lona, Ana­grama, 2009.

(4) Si legga Rafael Bara­jas e Pedro Miguel, «In Mes­sico un mas­sa­cro di troppo», Le Monde diplomatique-il mani­fe­sto, dicem­bre 2014.

(5) Si legga Jean-François Boyer, «La fine dell'indipendenza mes­si­cana», Renaud Lam­bert, «Car­los Slim, tutto l'oro del Mes­sico» e sub­co­man­dante Mar­cos, «La quarta guerra mon­diale è comin­ciata», Le Monde diplomatique-il mani­fe­sto, rispet­ti­va­mente marzo 2011, aprile 2008 e ago­sto 1997.

(6) Si legga Jean-François Boyer, «Il Mes­sico ostag­gio dei car­telli», Le Monde diplomatique-il mani­fe­sto, luglio 2012.

Articolo pubblicato in Il manifesto del 5 settembre 2015 e tratto da Le monde diplomatique

(Tra­du­zione di Alice Campetti)

Sergio González Rodríguez - Sag­gi­sta, vin­ci­tore del pre­mio Ana­grama 2014 per il miglior sag­gio in lin­gua spa­gnola con Campo de guerra (Ana­grama, coll. «Argu­men­tos», Bar­cel­lona, 2014). Que­sto testo è stato adat­tato da «La vio­len­cia extrema: yo den­tro», pub­bli­cato dalla rivi­sta spa­gnola Carta (2015).

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