2012-07-24







di adam carr

Making An Exhibition è una nuova rubrica di cura., che prenderà in esame diversi aspetti della curatela e della progettazione di una mostra, ma invece di contribuire al proliferare del dibattito sull’attività curatoriale, esaminare modelli paradigmatici o sostenere teorie critiche, si propone di occuparsi di aspetti più concreti della pratica dell’exhibition making. L’intento è esplorare il modo in cui una mostra viene allestita e la parte svolta dall’allestimento nella sua ricezione, fornendo una definizione parziale di cosa comporta la preparazione di una mostra. Così facendo, la rubrica porterà anche alla ribalta il lavoro di diverse figure che contribuiscono al processo di costruzione di una mostra, ma di cui in genere non si parla: saranno intervistati, tra gli altri, grafici, architetti, tecnici, allestitori, conservatori e organizzatori. Ogni conversazione contribuirà a rendere più visibili gli elementi di una mostra “che non si vedono”, il suo “dietro le quinte”.

Il primo Making An Exhibition si occupa del lavoro di quattro realtà molto prolifiche nel campo della grafica: A Practice For Everyday Life (APFEL) di Londra; Jurgis Griskevicius, che si divide tra Vilnius e Berlino; Stripe Sf di San Francisco, e Alfa 60 di Berlino. Discutendo del lavoro dei grafici e del modo in cui il design incornicia il concept di una mostra, la rubrica guarda anche ai rapporti che queste figure instaurano con curatori, istituzioni, musei e pubblico.

A Practice for Everyday Life (APFEL) Fondatrici, Kirsty Carter ed Emma Thomas

A.C. Il vostro studio gode ormai di una fama consolidata nel campo delle arti visive, dato che avete realizzato numerosi progetti per musei, gallerie e fiere d’arte. Potete parlarci di come è iniziato il vostro rapporto con il settore? Quali sono stati i vostri primi progetti?

APFEL Il primo progetto cui abbiamo lavorato insieme è stato Leftover, una pubblicazione che abbiamo curato quando eravamo ancora al primo anno del Royal College of Art, insieme a un gruppo di studenti del secondo anno del corso MA di Creative Curating al Goldsmiths. Quel progetto per noi è stato molto interessante: in qualche modo prefigurava l’exhibition design su cui avremmo lavorato insieme in veste di A Practice for Everyday Life, nel senso che quella pubblicazione funzionava più o meno come una mostra. Era una raccolta di schizzi e abbozzi di undici artisti contemporanei, in pratica gli scarti di alcuni loro lavori. Siamo convinte che spesso i processi lavorativi che sono dietro a un progetto siano altrettanto importanti del risultato finale, quindi Leftover era molto in linea con la nostra sensibilità. Dopo la laurea, molte persone con cui avevamo collaborato per il progetto Leftover hanno cominciato a lavorare per gallerie e istituzioni di tutto il Paese, e sono diventate i nostri primi clienti. Miria Swain, per esempio, dopo essersi diplomata al Goldsmiths, è diventata vicecuratore alla Modern Art Oxford e ci ha commissionato la grafica di inviti e brochure per ARRIVALS, una serie triennale di mostre organizzate in collaborazione con la Turner Contemporary di Margate. Questo, a sua volta, ci ha portato a lavorare con Rob Tufnell, che ha lasciato la Turner Contemporary per fondare una sua galleria, Ancient & Modern, per cui abbiamo progettato l’immagine visiva. Quindi Leftover ha agito come una specie di catalizzatore per la nostra futura carriera nel settore culturale. Dato che molte delle persone con cui abbiamo lavorato sono della nostra generazione, abbiamo potuto costruire un rapporto di lavoro mentre tutti quanti crescevamo nelle nostre professioni, e questo, a lungo termine, ha molto giovato alla dinamica creativo-cliente.

A.C. In genere, il vostro contributo alle mostre, in particolare alla loro identità grafica, spicca all’interno della loro concezione globale. Sapete interpretare l’idea che soggiace all’evento e ai lavori esposti con grande rispetto e cultura, senza superare i limiti e arrivare al punto in cui la grafica rischia di prendersi il primo posto, risultando prevaricante rispetto agli artisti. Potete parlarmi della direzione del vostro lavoro da questo punto di vista? In quali mostre, secondo voi, la vostra progettazione è stata valorizzata e messa in risalto, e in quali vi è sembrata più sottile?

APFEL La mostra Postmodernism, cui abbiamo lavorato l’anno scorso per il V&A Museum, è stata una grande occasione per strafare e creare un ambiente coinvolgente e immersivo – siamo stati tutti contenti di avere carta bianca. I contenuti della mostra erano abbastanza forti da mantenere la propria identità in un contesto elaborato e visivamente caratterizzato, quindi, insieme agli architetti Carmody Groarke (che sono nostri collaboratori di lungo corso) abbiamo utilizzato neon a profusione, superfici lisce e scenografie pompose in cui collocare gli oggetti in mostra. In una situazione come questa, hai la libertà di proporre una grafica ostentata, a patto che sia appropriata al contesto e consenta di presentare i lavori con una certa freschezza. Al contrario, il nostro lavoro per Wrong – una mostra curata da Jens Hoffmann alla Klosterfelde Gallery di Berlino – è stato molto più contenuto dal punto di vista visivo. I lavori in mostra erano stati scelti perché erano per qualche aspetto ‘sbagliati’, e noi volevamo riflettere questa caratteristica nel design, rompendo con le convenzioni grafiche e prendendo decisioni che andavano contro tutte le regole comunemente accettate della grafica. Così, per esempio, le etichette erano scritte in un quasi illeggibile corpo 6, e negli inviti i nomi degli artisti sembravano scivolare fuori dalla grafica, e si vedevano i segni di formattazione. Anche se non era molto forte dal punto di vista visivo, ci è sembrato che il nostro lavoro per Wrong fosse uno dei più concettualmente densi della nostra carriera. Siamo rimaste molto soddisfatte. A conti fatti, la misura in cui permettiamo che il design si mostri e attiri l’attenzione dipende dal contesto e dal contenuto della mostra; la cosa più importante è che sia appropriato ed equilibrato. Il design di una mostra rappresenta un contributo tangibile al modo in cui le persone la percepiscono e influenza l’impressione che ne conservano; il nostro obiettivo è fare in modo che questo contributo sia sempre appropriato alla mostra in questione, con approcci forti o delicati a seconda dei casi.

A.C. Potete raccontarmi come lavorate con i curatori? Qual è la procedura standard, ammesso che ce ne sia una?

APFEL Molto del nostro lavoro ruota attorno alla ricerca e alla collaborazione. Nell’exhibition design sono spesso coinvolte molte figure – curatori, grafici, architetti, oltre ai rappresentanti dell’istituzione stessa e spesso altri professionisti ancora – quindi la dinamica che si crea tra tutte le persone coinvolte è particolarmente importante. Per noi, la situazione ideale è quella in cui s’instaura un reciproco rispetto creativo, è una delle ragioni per cui ci piace tanto lavorare con Carmody Groarke. Se ti trovi in un tipo di ambiente in cui chiunque ha la possibilità di fare critiche e suggerimenti al di fuori della sua area di specializzazione, la collaborazione diventa più fruttuosa. Al contrario, se non hai questo tipo di comunicazione, le cose possono fossilizzarsi. Se non c’è questa impollinazione incrociata, tanto vale lavorare ognuno per conto proprio.

A.C. In quali tipo di elementi si traduce, di solito, il vostro lavoro su una mostra?

APFEL È una domanda molto difficile, perché nel campo dell’exhibition design non ci sono esiti ‘soliti’. Ancora una volta, le variabili in gioco sono moltissime: tra le altre cose, il contenuto della mostra stessa, lo spazio espositivo, gli input dei nostri collaboratori e il budget che abbiamo a disposizione. Nelle nostre collaborazioni con architetti e curatori, abbiamo avuto la possibilità di esplorare alcuni metodi produttivi insoliti e inattesi e di superare i limiti di quello che si potrebbe considerare un design ‘tradizionale’: abbiamo serigrafato fettucce elastiche in silicone per Postmodernism al V&A, stampato etichette su pareti di carta per Drawing Fashion al Design Museum e insudiciato i muri della Wellcome Collection per la mostra Dirt. La possibilità di sperimentare in questo modo è uno degli aspetti più interessanti di ciò che facciamo. Tuttavia, anche se la natura del nostro lavoro può sembrare diversa nel contesto di una mostra, il nostro approccio a questo tipo di progetti non è sostanzialmente diverso da quello che useremmo per un progetto bidimensionale o a stampa. Lavorare con uno spazio tridimensionale e progettare superfici e ambienti, per noi, è solo un’estensione dei processi di pensiero e metodi di lavoro che applichiamo nel resto dei progetti che intraprendiamo come A Practice for Everyday Life.

Jurgis Griskevicius

A.C. Vorrei che mi parlassi di alcune delle mostre cui hai lavorato, e del tuo primo progetto nell’ambito delle arti visive.

J.G. Il mio primissimo progetto nel campo delle arti visive è stato un poster per DÉJÀ VU – 6th International Look Alike Convention di Matthieu Laurette al CAC – Contemporary Art Centre di Vilnius (2003). All’epoca, non sapevo molto dell’arte contemporanea, ma in seguito il CAC ha iniziato a commissionarmi il design di diverse mostre. Mi occupavo soprattutto della grafica. Subito dopo, ho cominciato a collaborare con la galleria Tulips&Roses a vari progetti internazionali. Oltre a lavorare con curatori e artisti indipendenti, ho continuato quasi sempre a svolgere commissioni per il CAC, e l’ultimo progetto che abbiamo realizzato è stato Behind the White Curtain di Darius Mikšys alla 54. Biennale di Venezia.

A.C. Secondo te, qual è il ruolo della grafica nell’esperienza complessiva di una mostra? Che contributo speri di dare?

J.G. C’è una linea sottile tra la grafica come supporto a un oggetto e come oggetto in sé. Io cerco di operare in un’ottica di supporto, nel senso che voglio interferire il meno possibile con il contenuto e mi sforzo di trovare il tipo di comunicazione più silenziosa e lineare. Il risultato spesso è sottile, a volte quasi ‘invisibile’. Eppure, può essere in grado di svelare e/o rafforzare il messaggio di una mostra. A volte, dubito quasi di avere uno stile personale. Invece, uno stile si è formato senza che me ne accorgessi. Questa ‘invisibilità’ non è molto espressiva in superficie, ma mi sembra andare più a fondo, in un dialogo con la mostra e il suo rapporto con lo spettatore.

A.C. Hai notato approcci diversi da parte delle istituzioni e dei musei con cui hai lavorato?

J.G. Le istituzioni e i musei sono gestiti da persone, quindi gli atteggiamenti non possono che essere diversi. C’è chi predilige la stabilità e la costanza e chi tende alla sperimentazione e al cambiamento. Io mi trovo a mio agio con entrambi gli approcci, a patto che ci sia spazio per la creatività e il dialogo.

A.C. Ti piace lavorare con materiali diversi e pensi che il prodotto finale influisca sul contenuto del progetto… Puoi parlarci di come vedi la relazione tra la pagina stampata e la grafica?

J.G. Dato che i miei lavori sono per lo più a stampa, la carta è forse l’aspetto più importante dell’intero processo. Può migliorare o rovinare il risultato finale. Di solito, scelgo la carta ancora prima di abbozzare il layout. La carta offre allo spettatore un’impressione supplementare del contenuto e un valore al contenuto stesso.

A.C. Con quali materiali ami lavorare per le affissioni di una mostra? Che tipo di qualità offrono e quali difficoltà pratiche sollevano?

J.G. Personalmente, preferisco realizzare il materiale a stampa piuttosto che le affissioni. Un catalogo o un volantino sono le cose più interessanti da progettare, perché sono oggetti che lo spettatore può portare con sé, per avere un pezzo di mostra fuori dallo spazio espositivo. Inoltre, rappresentano qualcosa che rimane, mentre la mostra prima o poi viene smantellata. Un pezzo di carta ha il potere di durare e diffondersi.

Stripe SF / Fondatore, Jon Sueda

A.C. Puoi parlarmi di come hai iniziato a lavorare con le arti visive? È stata una decisione consapevole?

J.S. Mentre frequentavo il CalArts, nel 2000, ho curato una mostra per la scuola sulla storia dei font. Non aspiravo a diventare un curatore, mi interessava solo disegnare la grafica dei cataloghi delle mostre. In quella fase, nessuno mi avrebbe affidato la grafica di un libro, quindi ho cominciato a organizzare mostre io stesso, per darmi la possibilità di progettare la documentazione. Quest’attività scolastica mi ha portato a disegnare cataloghi per istituzioni e artisti e a coltivare un continuo interesse nel fare mostre.

A.C. Puoi parlarmi del tuo rapporto con i curatori, le istituzioni e i musei e del modo in cui lavori con loro?

J.S. Nei primi anni del mio studio, mi commissionavano due o tre volte l’anno la progettazione dell’identità grafica o il catalogo di una mostra. A volte mi capitava di lavorare diverse volte con lo stesso curatore, ma più spesso mi trovavo a dialogare con un curatore e una squadra diversi per ogni progetto. Negli Stati Uniti, pare che molte istituzioni artistiche lavorino così. I curatori spesso hanno un gruppo di grafici di cui si servono a rotazione, preferendo la varietà dei linguaggi grafici alla coerenza del lavoro con un solo designer. Naturalmente, era fantastico avere questi progetti su cui lavorare, ma per me era difficile introdurmi ogni volta in un nuovo contesto e ricominciare da zero. Oggi, al contrario, lavoro quasi sempre con un’unica istituzione e un unico curatore, il CCA Wattis Institute for Contemporary Arts e Jens Hoffmann. È una collaborazione molto feconda, nel corso degli anni siamo arrivati a conoscerci, a costruire un rapporto e abbiamo creato un sostanzioso corpus di lavori. Lavorare con una sola istituzione e un solo curatore per un periodo prolungato ti dà sicurezza. Per esempio, ormai conosco l’approccio di Jens alle mostre, quindi siamo entrambi più liberi di sperimentare e, si spera, di arrivare a un’interessante ‘terza via’, che nessuno dei due riuscirebbe a concretizzare da solo. Questo spirito di collaborazione coinvolge anche gli artisti, gli editori, gli allestitori e lo stampatore.

A.C. Secondo te, che ruolo svolge il tuo lavoro in una mostra?

J.S. Come grafico, il mio ruolo è sostenere la visione del curatore e creare un linguaggio visivo congeniale allo specifico contenuto e contesto narrativo della mostra. Userei la metafora del curatore come direttore d’orchestra, la persona che sceglie il brano da suonare, che controlla e armonizza le esecuzioni, e dà forma al suono complessivo. Il designer, che sia il grafico incaricato del catalogo o dell’identità visiva della mostra, o l’architetto che progetta l’arredo, è, a mio modo di vedere, un membro dell’orchestra.

A.C. Pensi che la grafica di una mostra possa anche nuocere ai lavori esposti?

J.S. Certo, un eccesso di grafica può senz’altro nuocere a un progetto. Se il design non fa da sostegno alla narrazione della mostra, può darne solo una rappresentazione distorta. Penso anche che la grafica possa portare a un eccesso di mediazione o di didattica. Parlo delle mostre in cui c’è un eccesso di design, un eccesso di materiale esplicativo che ti dice cosa dovresti guardare e perché dovrebbe essere importante per te. Sono convinto che la grafica possa aiutare a creare un punto di accesso alla mostra, un’atmosfera congeniale in cui lo spettatore sia libero di esplorare i lavori esposti e tracciare da solo i collegamenti.

A.C. Secondo te, in quali dei tuoi progetti la grafica è stata più presente?

J.S. Credo che la grafica svolga un ruolo fondamentale, e sia piuttosto visibile in tutte le mostre per cui lavoro. L’aspetto caratteristico della mia collaborazione con il Wattis Institute è che il design è molto presente in ogni mostra e ha un ruolo fondamentale nel creare la cornice fisica di un lavoro, e infine nel tradurre questa esperienza fisica in un libro.

Alfa60 / Co-fondatore, Joseph Miceli

A.C. Puoi dirmi come hai cominciato a lavorare nel campo delle arti visive?

J.M. Sia io che la mia socia Lina Ozerkina ci siamo diplomati al dipartimento di grafica della Gerrit Rietveld Academie che, almeno all’epoca in cui la frequentavamo noi, tentava di educare i grafici ad agire in parallelo, se non su un piano di parità, con la pratica artistica, ponendo un’enfasi a volte persino eccessiva su un approccio concettuale (più che estetico o tecnico) alla grafica. Questo non ci ha affatto preparato ai leggendari (e ben pagati) posti di lavoro nelle agenzie pubblicitarie, ma in compenso ci ha instradato verso il tipo di domande e di approccio richiesti dai progetti in campo artistico. Da questo punto di partenza, e senza pensarci troppo, ci siamo trovati a cercare attivamente progetti artistici, soprattutto libri e materiale a stampa, e qualche volta mostre e a esserne sempre più coinvolti.

A.C. Quale contributo sperate di dare a una mostra o a un’attività collegata con il vostro lavoro? Come vi sembra di interagire con il pubblico e la sua percezione dell’evento?

J.M. Spesso usiamo il termine “traduzione”, nel senso che quando ci impegniamo in un nuovo progetto cerchiamo di capire come “tradurre” l’idea di un artista nella forma più appropriata. Molte volte questo comporta una serie di discussioni e ricerche destinate a organizzare il progetto e presentarlo al pubblico, in modo che quest’ultimo possa accedervi e capire cosa succede.

A.C. Con che materiali avete lavorato nel contesto delle mostre? Potreste spiegarci come li usate e a cosa servono?

J.M. A seconda dello spazio e del tipo di lavori esposti cerchiamo di sviluppare una segnaletica e un sistema comunicativo appropriato, ma in genere il parametro fondamentale è costituito dai vincoli di budget. A parte utilizzare i tradizionali materiali a stampa (libri, manifesti, brochure ecc.) che fanno da supporto alla mostra, abbiamo lavorato con scritte in vinile su muri, finestre od oggetti, stencil applicati direttamente a parete, nastro adesivo sui pavimenti, proiettori e pannelli di legno inclinati, tra le altre cose. Dato che lavoriamo soprattutto con libri e materiale a stampa, spesso cerchiamo di disegnare il catalogo della mostra in modo che faccia anche, in certa misura, da guida, aiutando i visitatori a navigare tra i lavori e a comprenderli (se possibile). In un caso, abbiamo preso un “glossario” o “indice dei nomi” compilato da Matthew Post (Post Bros.) per una mostra, e lo abbiamo applicato in lettere di vinile alle finestre dello spazio espositivo, in modo che i visitatori fossero circondati dalle spiegazioni e definizioni delle idee in azione nella mostra. Anche il manifesto che avevamo progettato per la mostra era concepito come un libro, in modo da diventare, una volta piegato, il catalogo della mostra. In un altro caso, per un lavoro e performance di Gintaras Didžiapetris, abbiamo realizzato manifesti collocati in luoghi specifici della città di Vilnius, ma che indirizzavano i visitatori a una mostra che si svolgeva a Parigi!

A.C. Potete parlarmi del progetto Friends Make Books?

J.M. Friends Make Books è una collaborazione che abbiamo avviato l’anno scorso in Italia con il nostro amico Francesco Valtolina. Ci concentriamo soprattutto sul materiale a stampa, il design tipografico e la produzione di libri. In parole povere, e senza farla troppo lunga, siamo amici e facciamo libri!

1/8 APFEL, Dirt: The Filthy Reality of Everyday Life, 2011, exhibition view at The Wellcome Collection, London. Client: Wellcome Trust.

2/8 APFEL, Postmodernism, Style & Subversion 1970-1990, 2011, Victoria & Albert Museum, London. Client: Victoria & Albert Museum, London. Exhibition design in collaboration with Carmody Groarke.

3/8 APFEL, Leftover: interventions by eleven artists, 2002. Client: Goldsmiths College, London. Publication designed in conjunction with students of the MA Creative Curating course.

4/8 Jurgis Griskevicius, flyer for Collapse, Collide, Combine exhibition at Tulips&Roses gallery, Brussels.

5/8 Stripe SF, Blockbuster: Cinema for Exhibitions, curated by Jens Hoffmann, MARCO – Museo de Arte Contemporáneo de Monterrey, June 23 – September 25, 2011.

6/8 Stripe SF, The Way Beyond Art: Wide White Space, curated by Jon Sueda, CCA Wattis Institute of Contemporary Arts, San Francisco, January 20 – February 5, 2011.

7/8 ALFA60 / co-founder, JOSEPH MICELI, Exhibition, Exhibition, curated by Adam Carr, Castello di Rivoli, Turin, September 21, 2010 – January 9, 2011.

8/8 ALFA60 / co-founder, JOSEPH MICELI, Artists forced to apply the word index to the windows of the exhibition hall in CAC Vilnius, for the photographic exhibition Expanding the Image into Conversation as part of the introductory platform of the tenth Baltic Triennial of International Art, 2009.

Show more