2014-07-29

“Roi Nibalì” così titolava ieri il più importante quotidiano sportivo nazionale, La Gazzetta dello Sport, che a modo suo, abbandonando per un giorno il suo classico colore rosa in giallo, ha omaggiato “lo squalo dello stretto” per il trionfo alla “Grand Boucle”. 16 anni dopo quindi è nuovamente un ciclista azzurro a vivere in maglia gialla la passerella parigina sui gremitissimi “champs elysees” all’ombra dell’ “Arc de Trionphe”, uno dei monumenti simbolo della corsa a tappe francese; tanti anni infatti sono passati da quel meraviglioso Tour del 1998 in cui il pirata, Marco Pantani, fece innamorare una generazione intera, me compreso, di uno degli sport più seguiti da sempre nel nostro paese. Dal 1998 ad oggi il mondo del ciclismo è cambiato tantissimo e con esso è cambiata la sfera di interesse nei confronti di questa attività agonistica a causa dei grandi scandali che si sono succeduti nell’ultimo decennio, perdendo così così appeal e visibilità nella utenza sportiva internazionale. Nel mentre che il ciclismo azzurro provava a ricostruire le proprie fondamenta dopo l’ascesa del pirata, un giovane messinese trasferitosi in toscana per dedicarsi a pieno alla disciplina, incominciava a farsi largo all’interno del circuito professionistico mondiale, stiamo parlando ovviamente di Vincenzo Nibali che domenica scorsa ha completato la tripla corona conquistando, dopo il “Giro” e la “Vuelta”, il Tour de France.

DALL’ETNA ALLO ZONCOLAN

Da ragazzino, a detta di molti addetti ai lavori, aveva già la stoffa del campione, del predestinato, ma peccava ancora di inesperienza, una lacuna che il siciliano ha cercato di eliminare negli anni, spesso faticando ad estinguerla, ma riuscendoci proprio nel momento più importante della carriera. “La Vuelta” 2010 ha segnato lo spartiacque nel curriculum sportivo del campione azzurro, sopratutto dal punto di vista mentale consegnando allo stesso la consapevolezza dei propri mezzi e segnando così la giusta strada professionale da percorrere. Alla vittoria spagnola sono seguiti nelle stagioni successive solo grandi piazzamenti ma poche vere gioie da festeggiare  anche se, il secondo posto al Giro 2011 dietro Contador e il terzo posto del 2012 al Tour dietro il binomio sky Wiggins-Froome, sono state delle dolci sconfitte che rappresentano, con il senno di poi, il preludio alla favola dello squalo. L’obbiettivo del 2013 era la maglia rosa, primo step fondamentale per un corridore da grandi giri, una scelta che si rivelerà giusta a fine competizione; Nibali riesce a centrare il successo rosa e iscrive il suo nome nell’albo della seconda corsa ciclistica più importante della stagione professionistica, issando il tricolore sulle strade di casa.

IL TOUR: OBBIETTIVO PRIMARIO DEL 2014

Arriviamo alla storia più recente del corridore messinese. Il 2014 come il 2013 viene pianificato con in mente un solo obbiettivo primario: Il Tour de France. Per battere l’agguerritissima concorrenza, l’unico modo per trionfare a Parigi è quello di improntare l’intera stagione su quelle fatidiche tre settimane in cui ci si gioca tutto, reputazione compresa. Parliamoci chiaro, il pre-Tour di Vincenzo è stato tutt’altro che esaltante, quasi disastroso oseremo dire, tanto da indurre il direttore sportivo (notizia smentita ma probabilmente veritiera), l’ex ciclista kazako Alexandre Vinokourov, a inviare una lettera di diffida per scarsa preparazione allo stesso Nibali. Arriva così il momento del Giro del Delfinato che, come chi segue abitualmente il ciclismo ben sa, è l’ultimo terreno di preparazione e di prova, visto che le tappe ricalcano spesso quelle del Tour, in vista dell’inizio imminente della “Grand Boucle”. Il Delfinato definisce in maniera superficiale ma apparentemente esatta i valori in campo, o meglio in strada, tra i futuri contendenti della maglia gialla: in partenza è l’ultimo vincitore del Tour, Chris Froome, a fare da padrone e da dominatore al mini-giro ma poi, causa una caduta prima dell’ultima tappa, crolla nell’epilogo lasciando alla critica pochi segnali positivi; chi invece dimostra di non aver nulla da nascondere è Contador che dopo aver controllato varie volte la gara sferra gli attacchi giusti e mette in riga tutti gli uomini di classifica perdendo solo da Talansky, vincitore finale della competizione; il nostro Vincenzo gestisce, non risponde sempre agli attacchi dei diretti avversari e quando può prova a salire con il proprio ritmo. L’italiano conclude il Delfinato senza troppi entusiasmi ma consapevole dei propri mezzi e della propria preparazione lasciando immaginare agli avversari che probabilmente sarà lui il primo degli outsiders dopo i due favoritissimi Froome e Contador.

BRAVURA E FORTUNA ALLA BASE DEL SUCCESSO TINTO DI GIALLO

Il Tour prende il via dalla Gran Bretagna tra mille dubbi e poche certezze. Il primo acuto della corsa non tarda ad arrivare, anzi, già nella seconda tappa l’italiano mette subito la sua firma con un’azione straordinaria sul finale della tappa conclusasi a sheffield, portandosi a casa anche la maglia gialla. L’inizio è senza dubbio ottimo e i giornali italiani incominciano a parlare dello squalo giallo ma sembra più una maglia ottenuta per prestigio al termine di una ottima azione che un vero agguato ai piani alti della classifica. Passano tre giorni dal trionfo inglese e Nibali è ancora leader della classifica; il Tour è tornato in Francia e il disegno degli organizzatori porta il gruppo sul pavè dove le condizioni meteo rendono il percorso più insidioso del previsto, un percorso che per molti in quel giorno è stato sinonimo di calvario. Il primo colpo di scena sorprende tutti, Chris Froome non riesce a stare sulla bici e cade più volte, l’ultima gli da la mazzata decisiva e per lui il Tour è già finito. Se il ciclista di origini africane è già fuori dai giochi, c’è ancora un certo Alberto Contador da temere per l’italiano, ma le sorprese sul pavè non sono ancora finite. Lo squalo tra pietre ed acqua nuota e pedala che è una meraviglia, tanto che lo spagnolo perde la ruota della maglia gialla e sul traguardo il ritardo supererà addirittura i due minuti. Nibali da leader incomincia a diventare più realtà che mera suggestione. La grande marcia verso Parigi prosegue e il percorso porta i corridori ad affrontare le prime vere montagne della competizione 2014, i Vosgi. E’ la decima tappa, tutto prosegue secondo pronostico ma prima che il gruppo incominci la vera ascesa di giornata succede l’impensabile: Contador cade in un tratto pericoloso e incomincia perdere minuti su minuti. Lo spagnolo tenta in tutti i modi di rimediare ma il dolore è fortissimo, l’immagine dell’abbraccio con il compagno di squadra saxo Michael Rogers rimarrà per sempre nella storia della competizione 2014: dopo Froome abdica anche Contador. Nella tappa dell’uscita di Alberto Contador, Vincenzo stacca tutti in salita e si riprende la maglia di leader lasciata solo per un giorno sulle spalle del francese Gallopin; da questo momento in poi inizierà un nuovo Tour per il campione italiano.

UN DOMINIO SENZA RIVALI

Siamo a metà percorso e Nibali domina la generale orfana dei due grandi favoriti della vigilia, ora gli avversari non sono più gli stessi e come cambiano le classifiche cambia anche la gara. Arrivano anche le Alpi e il primo a cadere è l’australiano Richie Porte, portabandiera del team sky, che firma così la debalce francese della squadra che ha dominato gli ultimi 2 anni del panorama ciclistico internazionale. Anche sulle Alpi arriva la firma del messinese che continua a fare selezione e definisce così le vere priorità da cui difendersi nel proseguo della competizione. Lo spagnolo Alejandro Valverde è sembrato fin da subito il vero anti-squalo in gara, per via sia della costanza sia per l’attitudine alle pendenze, sopratutto in vista degli imminenti Pirenei. Archiviati Vosgi e Alpi quindi si va al confine tra Francia e Spagna nel territorio da sempre patria del mondo ciclistico e dei baschi. Sui Pirenei la storia non cambia, “le roi” continua a dominare e a rifilare minuti su minuti a tutti sopratutto a Hutacam dove cala il poker di vittorie mettendo il sigillo sulla “Grand Boucle”. Nel mentre che Vincenzo continua a fare gara a se, dietro ci si gioca il podio: Valverde non rispetta le attese e in terra amica crolla più e più volte lasciando terreno per il recupero dei francesi che senza farsi pregare rinvengono sullo scalatore spagnolo. Il giovane Thibaut Pinot ne esce da vincitore sui Pirenei prendendosi di prepotenza prima la maglia bianca da connazionale Romain Bardet e poi la seconda posizione in generale su Valverde. Subito dietro Pinot però emerge un’altro francese classe 1977 Jean-Christophe Péraud, capace a 37 anni di salire sul podio di un grande giro, un’impresa da altri tempi. Pèraud però non si accontenta della terza piazza e nella cronometro decisiva sferra l’attacco finale al giovane connazionale, riuscendo nell’intento; nella stessa crono, crolla Valverde che abbandona così le speranze di podio parigino mentre Pinot, come già  accennato, gestisce il più possibile la propria corsa contro il tempo ma, non essendo proprio una sua specialità, perde comunque la seconda posizione alle spalle della maglia gialla. A Parigi il trionfo sull’ultimo traguardo è stato, come lo scorso anno, di Marcel Kittel che ha chiuso ed aperto con una vittoria in volata il suo giro francese. Nella sfilata parigina, la maglia gialla di Nibali è stata affiancata sul podio dalle altre tre maglie delle altre tre classifiche inerenti la manifestazione ciclistica: Peter Sagan ha conquistato per il terzo anno di fila la maglia verde, riservata al miglior corridore delle volate; Thibaut Pinot, terzo della generale, ha avuto l’onore di sfilare con la maglia bianca del miglior giovane in classifica; infine, Rafal Mayka, già protagonista al giro d’Italia, vince la classifica degli scalatori indossando sotto l’ “Arc de Trionphe” la blasonatissima maglia “a pois”.

L’APPARENTE ED INEVITABILE DOMINIO CONDITO DAI DUBBI

Dopo aver analizzato e riassunto la campagna francese dell’azzurro ci concentriamo ora su aspetti più tecnici e specifici della gara e non, cercando di dare una risposta alle domande più frequenti che in molti si saranno posti al termine del Tour: Nibali avrebbe dominato o semplicemente trionfato nel caso in cui Froome e Contador fossero arrivati fino alla fine della corsa? La vittoria del messinese potrebbe essere dovuta ad un nuovo caso di doping? L’inevitabile paragone con Pantani può portare ad una preferenza evidente verso uno dei due corridori? Procediamo per gradi.

Senza ombra di dubbio, l’azzurro è arrivato al tour in uno stato di forma eccezionale, nonostante le apparenze del Delfinato (perché non considerare la lettera di Vinokourov e le prestazioni del pre-tour come pura pretattica volta a depistare gli avversari più diretti?) ma sopratutto è sembrato il più preparato, il più pronto nella fondamentale conoscenza del percorso: pensare che l’attacco di Sheffield o la splendida gestione del pavè siano stati pura casualità è una follia; certo entrambe le azioni sono state accompagnate da una certa dose di fortuna ciò non toglie che il tempismo delle azioni è risultato impeccabile, se non addirittura perfetto. Spesso, dopo l’uscita di scena di Contador, ci si è dimenticati che il divario tra lo spagnolo e l’italiano in classifica generale era già piuttosto ampio, il che avrebbe sicuramente indotto l’iberico ad inventare un’attacco a sorpresa o addirittura più attacchi durante la gara. Froome rimaneva ed è rimasto un’incognita: probabilmente le gambe non erano quelle dell’anno scorso e la caduta al Delfinato condita da quelle del pavè hanno condizionato non poco il giudizio complessivo sul valore del britannico della Sky al tour. Un altro punto a favore di Vincenzo è il fattore squadra: la Astana, essendo comunque un team ben organizzato, non era di certo al livello della Sky o della stessa Saxo, sopratutto nelle tappe di montagna dove il più delle volte Nibali è rimasto solo contro tutti. Il Dominio è stato inevitabile per la scarsa concorrenza in classifica generale, la leaderships dello squalo non è mai stata messa in discussione da nessuno, e tutti i diretti avversari non sono stati di certo dei primi violini nelle rispettive squadre: Valverde è il grande gregario di Quintana, Porte quello Froome, mayka quello di Contador, Pinot è un giovane capitano che in un grande team farebbe il gregario di lusso e infine Péraud, non più giovane, è stato liberato da suo ruolo solo dopo il crollo di Bardet. Non sapremo mai se Vincenzo Nibali sarebbe riuscito a vincere lo stesso questa edizione del Tour anche con la presenza di Froome e di Contador, ma siamo sicuri che egli avrebbe battagliato fino all’ultimo chilometro per difendere la maglia gialla ottenuta in terra britannica, sia per via della preparazione sia per via della gestione mentale dimostrata comunque nel proseguo della corsa.

Come ogni anno, al termine della “Grand Boucle” parte inesorabile l’accusa globale di doping nei confronti del vincitore, un grido che ormai, sopratutto sui social network, è diventato più una moda che una vera e propria considerazione personale. I precedenti più recenti ci insegnano che spesso la vittoria francese di un corridore è concisa con la positività dello stesso a sostanze dopanti, vietate, quindi illecite a cui è succeduta spesso la revoca del titolo e la conseguente lunga squalifica. Questa accusa, proveniente da pseudo-sportivi, arriva sempre senza un minimo di conoscenza e sopratutto dall’assoluta assenza di prove annunciate o presunte all’indirizzo del ciclista preso di mira. Di certo c’è che risulta sempre molto difficile “mettere la mano sul fuoco” sull’assoluta correttezza di un atleta al termine di una corsa così faticosa e così impestata da precedenti storici abbastanza famosi, ma è importante partire sempre dal giudicare in modo obbiettivo e sportivo almeno sino al momento in cui una determinata accusa venga appurata, accertata e processata. Ciò che però rende il fatto atipico e di bassa considerazione realistica è che ad essere preso di mira è sempre il vincitore del Tour, in questo caso Nibali, non il secondo (che nello specifico caso del 2014 per altro ha ben 37 anni) non del terzo, ma sempre della maglia gialla parigina. Supponendo che Péraud, per grazia divina, fosse riuscito a vincere la competizione e che Nibali fosse arrivato secondo sul podio finale, saremo più che certi del fatto che si parlerebbe senza dubbio della positività presunta del francese e magari dell’ennesimo grande giro di Vincenzo, fermato solo da un corridore “imbroglione”; capite bene che queste accuse lasciano il tempo che trovano ma non abbiamo potuto fare a meno che evidenziarlo.

Arriviamo infine a provare a dare una risposta in merito al dualismo storico venutosi a creare tra il messinese e il pirata romagnolo. Partiamo dal presupposto che fare la comparazione tra due atleti di epoche diverse risulta sempre molto complicato, non solo nel ciclismo, ma a grandi linee è possibile esprimere un giudizio condivisibile, o meno, capace di stuzzicare la mente di molti lettori affinché ne possa nascere un’interessante discussione collettiva sulla questione. La più grande differenza tra i due, come già abbiamo provato ad accennare, è l’epoca ciclistica di riferimento, quindi non due diversi modi di andare in bici ma due differenti scuole di pensiero, due diversi modi di interpretare sia la corsa che la preparazione. In un mondo, sportivo si intende, quello moderno, in cui il livello tecnico e sopratutto agonistico risulta essere sempre altissimo e pieno di alternative, la preparazione fisica risulta determinante a fini del risultato finale sopratutto se l’obbiettivo stagionale comprende uno dei tre grandi giri. Sembra veramente difficile assistere oggi ad un’accoppiata Giro-Tour in un unica stagione, impresa riuscita a Pantani ad Esempio, segno evidente che i tempi sono cambiati e che non è più semplice come una volta gestire due picchi di forma a pieno, gestirne uno invece sembra più producente, anche se si rischia di chiudere la stagione a mani vuote.

Dal punto di vista puramente tecnico, Vincenzo è sicuramente più completo di Marco: in pianura ha dimostrato di stare sempre davanti con i migliori passisti del gruppo e di evitare in prima persona pericoli più sottovaluti quali rischio di ventagli e fughe pericolose di inizio gara ad esempio; l’ultimo giro di Francia ha esaltato una caratteristica finora nascosta dello “squalo dello stretto” ovvero l’ottima attitudine al pavè, presupponendo una futura partecipazione, chissà, alla grande classica Parigi-Roubaix; a cronometro poi ha un buon passo, non è di certo Tony Martin, ma riesce a difendersi alla grande e se il terreno lo permette perfino di attaccare; le doti di scalatore sono arcinote, così come quelle da discesista, insomma un mix perfetto. Il pirata invece peccava non poco nella lotta contro il tempo e in pianura aveva dimostrato di avere qualche difficoltà, in salita però non ce n’era per nessuno, nemmeno un corridore creato in laboratorio prodotto dalla fusione di Nibali, Contador e Froome sarebbe potuto resistere ad un’attacco di Pantani su una ripida salita; Marco non era uno scalatore, Marco era “lo scalatore” per eccellenza. Dal punto di vista dell’immagine non c’è gara, sarebbe come confrontare ipoteticamente Messi e Maradona (nel bene e nel male), il ciclista di Cesenatico era un personaggio stupendo, un personaggio d’altri tempi, oseremo definirlo “romantico”, forse l’ultimo baluardo della vecchia scuola dove i tatticismi lasciavano spazio al motto, non necessariamente famoso,  “abbassa la testa e pedala”. L’umile ragazzo siciliano o lo sregolato romagnolo, l’eroe della tattica o l’eroe romantico, impossibile dare un preferenza senza riserve al confronto, vi lasciamo immaginare da che parte penda la nostra. Una cosa però la sappiamo di certo, Vincenzo è sempre stato molto legato a Marco, sopratutto alla sua famiglia e alla madre alla quale ha promesso di portare la sua maglia gialla una volta di ritorno in Italia, e siamo certi anche che in queste tre settimane di Tour, lassù, c’è sempre stato un ragazzo felice con la bandana legata in testa che, seduto su una poltrona di nuvole a fianco a Fausto Coppi e Gino Bartali, ha esultato per il trionfo di Nibali e che come noi, si è emozionato un casino a vederlo sul trono giallo degli  champs elysees.

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