2016-11-11

“Suonano le campane che ancora possono cantare

Dimentica la tua offerta perfetta

C’È una crepa in ogni cosa

È questo il modo in cui la luce entra.”

[Anthem, 1992]

Un signore d’altri tempi.

Una definizione, quasi un’illuminazione, che mi si materializzò dentro subito dopo aver avuto l’onore di presenziare alla superba ed elegantissima performance di Leonard Cohen all’Arena di Verona, il 24 Settembre 2012.

Uno show raffinato, vigoroso, corale, coinvolgente. Raro, considerato che non mi è mai più capitato di commuovermi in quel modo ad un Live.

Ben tre ore emmezza di concerto per un ottantenne (Leonard è morto il 7 Novembre, l’altro ieri, a 82 anni) che questi aggettivi seppe trasmetterli senza soluzione di continuità ad un pubblico straordinariamente attento e non caciarone.

Rapito ma non rumoroso.

Innamorato ma non invadente.

Fu una simbiosi naturale quella che si creò tra le corde vocali cavernose e divine del menestrello di Montrèal e le anime dei dodicimila presenti nell’affascinante anfiteatro romano del capoluogo veronese.

Ricordo la paura per le condizioni atmosferiche avverse della vigilia, ma il sorgere della Luna da dietro il palco accompagnata dal crescendo delle note che Leonard Cohen e la sua band iniziarono a condividere con i fan di lunga, media e breve durata rese la serata perfetta per vivere almeno un quarto della nostra giornata fuori dal Tempo di tutti i giorni.

Il buon vecchio Leonard, con la sua carica, il suo carisma, il suo fascino e il suo inconfondibile vocione ci sollevò tutti di peso da terra, trasportandoci nelle valli incantate delle sue storie d’amore, di malinconia, di blues & rock and roll, regalando momenti puri, d’emozione vera.

L’apertura fu un classico. Palco quasi in penombra e Dance me to the end of love introdotta dal coro delle Webb Sisters e Sharon Robinson, vocals tutte femminili e di grande avvenenza of course, ma pur sempre di un dongiovanni stavamo parlando, seppur attempato e in là con gli anni (“Morte di un dongiovanni” è uno dei suoi album di maggior successo).

Leonard entrò per ultimo, di corsa come un arzillo trentenne. Quell’energia, quei saltelli di sfida verso il suo corpo, furono una delle cose che più mi rimasero impresse. Quale straordinario dio albergava in Lei, Mr.Cohen?

Come da tradizione, appena prima della conclusione del coro iniziale, la sua ugola dorata poi auto-omaggiata come da tradizione in The tower of song (“I was born like this, I had no choice. I was born with a gift of a golden voice”) riscaldò l’aria fresca serale e settembrina scatenando il primo sentito applauso.

Da lì non si fermerà più.

Anzi, solo una volta per 15 minuti a metà concerto, per far riprendere il fiato a quei polmoni così portentosi ma sicuramente usurati da quel “Old Ideas Tour” nato per far conoscere al mondo la sua terzultima opera, l’album quasi autobiografico Old Ideas che, al solito, sarebbe stato osannato dalle critiche di tutto il mondo, da Rolling Stones al Chicago Tribune.

Ma a parte quella pausa (dovuta) il poeta canadese prestato alla musica non si e ci fece mancare nulla del suo straordinario repertorio (ben 28 canzoni), mandando in visibìlio i presenti con pezzi storici e leggendari come Halleluja, Everybody Knows, The Partisans, Waiting for the miracle, The Future e tutti gli altri capolavori che contribuirono a far diventare Leonard Cohen il più importante e fondamentale ispiratore dei principali cantautori e musicisti moderni, da Bob Dylan, Fabrizio De Andrè, Nick Cave e Neil Young in giù.

Divertendosi peraltro come un ragazzino con dialoghi e sinuose improvvisazioni, come l’affascinante ed ipnotica trovata di recitare due sue poesie al microfono, Alexandra Leaving e Coming back to you, con le delicatissime voci spiritual e classic country della Robinson e delle Sisters ad interpretarle con arpa al seguito, per rendere ancor più magica l’atmosfera.

Ma se ci chiedessero di confessare la nostra personalissima istantanea dello show di Cohen, e quindi della sua essenza sia come artista che come persona, andremmo sul sicuro, magari facendo storcere il naso a qualche purista.

Non di musica in senso letterale stiamo infatti parlando, ma di quello che quest’uomo, uno Speciale e fu evidente anche quella sera, è stato in grado di trasmettere durante tutta la sua vita – o meglio, CON la sua vita – attraverso un semplice gesto, una parola, una pausa meditata, una poesia. Attraverso lo sguardo acuto ed il sorriso ironico e smaliziato dell’animo sereno, consapevole del proprio stesso carisma. E del potere assoluto della Musica. Mi spiego meglio…

Durante l’accompagnamento instrumental di Anthem, Leonard approfitta dell’assolo prolungato della chitarra, del violino e della batteria per trasformarli in sottofondo sonoro all’omaggio che sta per porgere ai componenti della sua band.

Ad uno ad uno, con lentezza misurata e regale, Leonard Cohen si dirige di fronte ai suoi musicisti. Si toglie l’iconico e famigerato cappello grigio, se lo poggia sul cuore e davanti ad ognuno ne recita al microfono il nome, la provenienza e ne elogia le qualità musicali, rivolgendosi al pubblico e agli dèi delle sette note.

Poi s’inchina, faccia a faccia con quei compagni di liriche e vita, rimanendo immobile e reverente per una manciata di secondi. Affidando all’applauso dei presenti la chiusura dell’omaggio.

In un’epoca in cui l’individualismo anche a livello musicale ed artistico scorrazza indisturbato ed accettato, Lui che viene da lontano ed è il più Grande di tutti ci dice qualcosa di assurdamente originale. Non solo IO che canto e finisco sulle copertine, ma tutti in egual modo siamo importanti, mentre la chitarra continua a dare ritmo e pathos a quell’inusuale ma affascinante cerimonia

E LORO sono importanti quanto Me nel provare a trasmettervi cos’è per noi la Musica, cos’è per noi la gioia del cantare, suonare e raccontare le nostre emozioni attraverso il nostro Talento e la nostra Passione.

Raccontare le nostre storie.

E riviverle insieme a Voi.

Un signore d’altri tempi.

La sublimazione del concetto arriva come etichetta vuole sul finire dello Spettacolo. In rapida successione So long Marianne, Famous Blue Raincot e First we take Manthattan - ovvero tre tra le opere d’arte più identificative della variopinta carriera coheniana – sanciscono l’apice del concerto, l’apoteosi del pubblico finalmente in piedi ad applaudire a scena aperta quel vivace ottantenne che, come un mito hollywoodiano senza età, non sembra poter mai perdere un colpo.

Piuttosto, incurante della schiena probabilmente dolorante, si congeda con un inchino a piegarsi quasi in due, le mani congiunte in segno di ringraziamento rivolte all’Arena, andandosene dal palco correndo così com’era venuto, saltellando e muovendo in aria le mani, ridendo di gusto mentre scroscìano gli applausi, con rose rosse a piovere sul sipario in chiusura.

Una serata come un’altra per Leonard Cohen, il poeta, il cantante, il menestrello, lo showman in tour.

Per Noi, una serata unica con un vecchio ma intramontabile amico.

Ancora una volta, grazie di tutto, Mister Cohen.

“Per tutti noi Leonard Cohen è stato il più grande songwriter di sempre. Totalmente unico e impossibile da imitare, a prescindere da tutti i nostri sforzi per raggiungerlo. Mancherà tantissimo, a tantissimi.”

[Nick Cave]

- In loving memory of Leonard Cohen [1934-2016] -

Michele Pettene

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