Storie di Atleti che, come il superuomo di Nietzsche, hanno costretto al Cambiamento
Schiacciando l’antico spirito apollineo
“Ora basta!”. Il comitato dell’NCAA, il campionato universitario americano di pallacanestro, se ne uscì con un verdetto unanime nell’estate del 1967: dalla prossima stagione la schiacciata sarà proibita.
Un anno prima era successo l’imprevedibile, così come in “Così parlò Zarathustra”. Un atleta venuto dal futuro (e da New York City, che è un po’ la stessa cosa), perfetto nei suoi 2.18m e un dominio su un campo da basket senza precedenti, stava sconquassando gli equilibri e i canestri di tutta la nazione a suon di schiacciate, ovvero il gesto più irriverente ed inarrestabile.
Kareem Abdul Jabbar, durante le stagioni vincenti a UCLA e prima della conversione all’Islam, si chiamava Lew Alcindor. Talmente superiore che le vecchie strutture di una società superata lo vollero arginare, preoccupate dalla supremazia sua e del college del leggendario coach John Wooden.
Ma nulla potè l’ottuso spirito apollineo contro lo slancio dionisiaco di una forza della natura: dal 1968 al 1970 il campionato NCAA fu sempre vinto da UCLA nonostante il divieto, e Alcindor fu proclamato Miglior Giocatore in due annate su tre. Dimostrando a tutti il significato di “oltreatleta”: non potendo più schiacciare Jabbar sviluppò semplicemente l’altro movimento più immarcabile nella storia del Gioco, il Gancio Cielo.
Al solito, accortisi troppo tardi del danno procurato allo spettacolo, l’NCAA reintrodusse la schiacciata dal campionato 1976-77.
Conquiste da prima pagina
Essere donne e per di più afroamericane negli anni ’50 statunitensi non erano di certo tra i requisiti più richiesti per essere autorizzate a lasciare un segno indelebile nella storia dello Sport. Ma Althea Gibson era un’atleta e una tennista differente, e lo dimostrò a tutto il mondo quando nel 1957 vinse Wimbledon, all’epoca considerato il “Mondiale del tennis”: Althea fu la prima donna di colore di sempre a vincere un trofeo del Grande Slam (aveva vinto nel ’56 anche il French Open), la sua strepitosa carriera diventò d’ispirazione per tutte le atlete “blacks” e ad oggi è considerata al pari di Jackie Robinson, il primo giocatore nero di baseball nel campionato americano.
Non solo. La Gibson, grazie alla magia e alla forza dello Sport, dimostrò in un modo così semplice ed evidente l’assurdità della barriera razziale che Sports Illustrated e Time le dedicarono le loro copertine nell’estate del ’57: manco a dirlo, furono le prime di sempre con un’atleta di colore sulle prime pagine di due dei giornali più letti al mondo.
Limiti come illusioni
Il Giappone sportivamente parlando non ha mai avuto grandi exploit mondiali se si parla di sport di squadra, a meno che non si parli di baseball e softball, orgogli nazionali.
Eccellere in queste due discipline, applicando l’antico spirito samurai che alberga ancora oggi nell’animo di ogni buon giapponese, è considerato un onore e un privilegio che omaggia la patria e il fine ultimo del proprio talento.
Hideki Matsui, leggenda del baseball giapponese, rappresenta la perfetta sintesi del pensiero nietzscheano dell’oltreuomo e dell’attitudine nobile del samurai intrisa della filosofia scintoista del rispetto verso l’Altro. Giocando da ragazzo nelle leghe giovanili del suo Paese molti, tra compagni ed avversari tra cui il fratello, gli segnalarono l’imbarazzo provocato dalla sua superiorità nel rispondere con colpi tremendamente forti ed imprendibili per chiunque. Il battitore -destrorso- non battè ciglio, e per rispettare il suo concetto di Gioco passò la fidata mazza nella mano debole, la sinistra: da quel momento in poi non avrebbe mai più risposto con l’amata destra, diventando comunque una delle macchine da “home run” più temute di sempre, arrivando a vincere il campionato americano come Miglior Giocatore nel 2009. Matsui, come Michael Jordan, avrebbe sempre visto i limiti solo come timide illusioni, da sconfiggere con forza mentale, determinazione e un pizzico di follia samurai.
Visioni distorte
Ci voleva una testa “particolare” come quella di Sean Avery per costringere l’NHL, il campionato americano di hockey sul ghiaccio, ad inserire una nuova regola per la propria lega. Ma d’altronde se passi metà del tuo tempo ad oscurare con le braccia e la mazza da hockey il portiere avversario, probabilmente il minimo che ti possa accadere è una sanzione (arrivata puntuale) e successivamente un repentino aggiornamento del regolamento di gioco. Il tutto avvenne il 13 Aprile 2008, durante Gara-3 del primo turno di playoff tra i New York Rangers di Avery e gli odiati rivali del New Jersey, i Devils. I Rangers erano in attacco e Avery, poi diventato famoso anche come modello e come stagista a Vogue, decise di ostacolare la vista di Martin Brodeur, il portiere dei Devils. Come se durante Juventus-Inter l’attaccante Icardi ostacolasse con le mani la visuale di Buffon su un calcio d’angolo, mettendogliele a poca distanza dagli occhi. Avery peraltro usò anche la mazza per distrarre Brodeur, e al secondo tentativo riuscì pure a segnare: troppo, anche per l’NHL , che creò una regola ad hoc chiamata appunto “The Avery Rule” per impedire comportamenti simili in futuro.
Magari non un atteggiamento da “oltreatleta” duro e puro, ma pur sempre un grosso cambiamento.
Influenze contemporanee
Pochi ricordano i pionieri del gioco della pallacanestro, ma la mancanza di televisione e internet non ha impedito al mitico Leroy Edwards di influire su questo sport dal 1936 al 2016.
Considerato tra i dieci atleti universitari più forti del decennio dei 30s, Leroy era un lungagnone allenato alla University of Kansas da un altro leggendario coach, Adolph Rupp. Grazie ai suoi insegnamenti Edwards diventò il più forte realizzatore del campionato collegiale, talmente forte che il trattamento riservatogli dalle difese avversarie era spesso ai limiti della lotta greco-romana.
Proprio al termine di una delle solite scazzottate non punite dagli arbitiri, la partita contro New York University, i giornali dell’epoca osservando il punteggio finale di 23-22 per NYU accusarono il gioco di essere troppo lento e sporco, anche a causa dello stazionamento del povero Leroy in area continuamente abbattuto dai difensori per non farlo segnare come suo solito. L’onnipresente comitato NCAA decretò dunque l’introduzione della nuova rivoluzionaria regola: dalla stagione successiva nessun attaccante sarebbe potuto rimanere in area per più di tre secondi, impedendo dunque mattanze come quelle capitate a Leroy Edwards e limitando il dominio dei giocatori alti nei pressi del canestro. Una regola talmente fondamentale per l’evoluzione del Gioco che ancora oggi viene sanzionata dagli arbitri di tutto il mondo.
Al di là del maschio e della femmina
Le ultime edizioni delle Olimpiadi e dei Mondiali d’atletica hanno portato alla luce la nuova barriera d’abbattere in termini di razzismo e pregiudizi: la transessualità.
Uno dei casi più controversi, dibattutti e commoventi è quello della sudafricana Caster Semenya, oro olimpico ai recenti giochi di Rio de Janeiro negli 800 metri.
Alla Semenya, a causa delle voci di corridoio sui suoi lineamenti mascolini e dopo il suo oro negli 800 ai Mondiali del 2009, venne imposto di sottoporsi a degli esami che ne certificassero la femminilità e l’assenza di un vantaggio competitivo rispetto alle avversarie. Test imbarazzanti e lesivi della dignità personale che erano comunque stati modificati dal Comitato Olimpico Internazionale prima di Sidney 2000: la scannerizzazione basata sui cromosomi era stata giudicata ne etica ne scientifica, causando casi spinosi come quello della judoka brasiliana Edinaci ad Atlanta 1996.
Caster Semenya è risultata essere affetta in modo naturale da pseudoermafroditismo, e per questo lasciata libera di competere: il Sudafrica l’ha scelta come portabandiera del suo Paese alle Olimpiadi di Londra nel 2012, un gesto simbolico enfatizzato dalla medaglia d’argento negli 800 e un’affermazione universale sulla sacralità della propria identità.
Cambiamenti violenti
Uno dei cambiamenti più sanguinosi e tragicamente affascinanti nel mondo dello Sport riguarda il pugilato e la riduzione dei match da 15 a 12 round, avvenuta nel 1983.
Ray “boom boom” Mancini nel 1982 era il campione del mondo in carica per la categoria “pesi leggeri”, e il 13 Novembre sul ring del Caesars Palace a Las Vegas si ritrovò di fronte a combattere per il titolo il temibile sudcoreano Duk Koo Kim. Dopo un’estenuante battaglia al 14mo round Mancini ebbe finalmente la meglio, mandando alle corde il sudocoreano, che tentò di reggersi in piedi per continuare lo scontro: l’arbitro Richard Green però ne aveva viste abbastanza, e concluse il match dichiarando vincitore Mancini.
Duk Koo Kim però sembrava ridotto veramente male: venne portato all’ospedale dove cadde in un profondo coma, morendo dopo quattro giorni. Disperata, sua madre si tolse la vita con del veleno, e quattro mesi dopo l’arbitro Green, soppraffato dai sensi di colpa per non aver fermato prima il match, si suicidò, facendo sprofondare Ray Mancini in una cupa depressione. Non sarebbe mai dovuto essere necessario, ma il mortale sacrificio di Duk Koo Kim costrinse il World Boxing Council a ridurre il numero di round, salvando probabilmente altre vite e ricordando da lì in avanti in ogni incontro uno dei tanti atleti che tristemente hanno dato la vita per lo Sport. Cambiandolo per sempre.
Scendere a terra
Il baseball e gli americani, si sa, sono da sempre all’avanguardia nell’applicazione delle nuove tecnologie e della scienza allo Sport, e già negli anni Sessanta quando ancora in Italia si discuteva sull’assegnazione o meno di un calcio di rigore (ah già, come oggi…) al di là dell’oceano creavano indici statistici avanzati per valutare un lanciatore. L’”ERA”, un indice per calcolare l’efficienza di un lanciatore rispetto alle palle ribattute, era uno di questi, e Bob Gibson -storico “pitcher” dei St.Louis Cardinals- ne possedeva uno stratosferico. Nel 1968, dopo un’annata superlativa da parte di Gibson, la MLB (Major League Baseball) decise di rendere più difficile il lancio della palla verso il battitore, e per farlo fece abbassare l’altezza del monte di lancio, ovvero quella piccola “collinetta” da cui i lanciatori scagliavano la palla verso i battitori avversari. La riduzione fu da 15 a 10 pollici, pressapoco da 38 a 25 centimetri da terra: un cambiamento notevole, capace di condizionare anche l’ottimo Gibson che, dalla stagione successiva, non potè più ripetere i numeri strepitosi dell’annata precedente.
Michele Pettene
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