2015-09-03

In una calda giornata d’estate, succede che ti trovi a riflettere sulla cosiddetta scena indie italiana della scorsa decade e pensi che, forse, certe cose non torneranno più. Ripensi a quando prendevi l’auto con gli amici per andare nella vicina Bologna a vedere le tue band indie preferite, oppure a quando le beccavi a due passi da casa. Le sigarette fino alle sette, l’alcool in corpo, tornare a casa in auto alla mattina cantando qualche canzone italiana a squarciagola. Poi, tutto a un tratto, quella scena ha iniziato a diventare una specie di circolo esclusivo a cui potevi accedere solo se non guardavi le persone negli occhi ma bensì se fissavi la punta delle tue stesse scarpe, o se indossavi felpe con sotto la t-shirt della band “più indie al mondo” – che tradotto suona più o meno come “la band che nessuno in questo cazzo di mondo conosce” – sorbendoti canzoni strumentali interminabili (ed insostenibili) al Covo. Il fumo negli occhi e nei polmoni, e la musica che non ti entrava più nel cuore. Qualcosa stava cambiando. Quella scena da me a lungo amata stava diventando inconcludente, autoreferenziale, una cosa del tipo “sono figo perché sono figo”.

Piano piano questi hipster – o chiamateli come volete – hanno iniziato ad essere dei veri presenzialisti ai concerti di band internazionali da me idolatrate come Dinosaur Jr, Mudhoney, Pixies. Li vedevi spuntare come fughi a vedere Lanegan all’Estragon, ovviamente senza cantare una singola parola “perché ai concerti non si canta, per Dio!” e con piantato davanti alla barba l’immancabile device tecnologico ad erigere una specie di barriera tra l’artista e il pubblico. Non quelle che ci devono necessariamente essere tra chi la musica la crea e chi l’ascolta, ma quelle tirate su a colpi di flash, setlist twittate e geolocalizzazioni compulsive su Facebook et similia.

Poi può capitare una band che ti fa esclamare: “Finalmente! Ma dove cazzo eravate? Ma finalmente!”

Finalmente una band italiana che riesce a fregarsene di apparire giusta per il movimento indie italiano, che non si fa seghe mentali a comporre canzoni squisitamente pop e che potrebbe avere un airplay mostruoso anche nelle più popolari radio italiane. Finalmente una band che pubblica un perfetto disco synth pop italiano, che funziona maledettamente bene anche dal vivo.

Loro si chiamano Thegiornalisti e recentemente hanno fatto da headliner – hanno chiuso la serata, così sembro meno esterofilo – del Meeting People Is Easy, rassegna organizzata da Youthless Fanzine che propone da sette anni a questa parte il meglio della musica indipendente del panorama italiano. Formatisi a Roma nel 2011, hanno pubblicato un paio di dischi che sapevano (un po’ tanto) di Strokes e che, senza tanti giri di parole, non sono riusciti a lasciare il segno. Poi l’anno scorso è arrivato Fuoricampo che ha cambiato tutto. La band guidata da Tommaso Paradiso si è appropriata di un sound anni ’80 intenso, per certi versi beffardo e nostalgico e per altri romantico, riuscendo finalmente a fare centro. La conferma per me è arrivata proprio in occasione del concerto a Reggio Emilia, dove la band si è esibita in un set di un’ora coinvolgendo il pubblico sin dal primo pezzo (Per Lei), che apre l’ultimo disco. Ci si è emozionati su Proteggi Il Tuo Ragazzo e L’importanza Del Cielo (Miyazaki), si è ballato su Balla (per l’appunto!) e si è cantato a squarciagola la bellissima Fine Dell’Estate. Sì, a squarciagola, in culo a chi non vuole cantare ai concerti. Tutti quanti, dai teenager ai ventenni, dai coglioni come me ai ragazzi con un passato hardcore e le braccia piene di tatuaggi. Perché non c’è niente di più liberatorio di un concerto in cui puoi cantare tenendo in tasca il tuo fottuto iPhone per un’oretta, sgolandoti su versi che fanno già parte di noi come “La mia malinconia è tutta colpa tua. È solo tua la colpa è tutta tua e di qualche film anni ’80” e che da soli dimostrano quanto la band riesca a colpire pur nella sua semplicità, tra rimandi a Venditti e agli Strokes più elettronici (quelli di Comedown Machine), mantenendo comunque un sound del tutto personale. E poco importa se il cantate è sgraziato sul palco, alle ragazze pare andare bene lo stesso, quindi approvo anch’io.

Alla fine del concerto Tommaso scende dal palco e canta gli ultimi versi di Promiscuità in mezzo al pubblico, proprio come faceva anni fa un altro Tommaso, quello dei Perturbazione, che in quanto a sensibilità pop potrebbero proprio essere stati fonti d’ispirazione per gli stessi Thegiornalisti. Perciò non stupiamoci se questi ragazzi – tra neanche troppi anni, io prevedo – arriveranno al Festival di Sanremo, scalando le classifiche italiane e dando il definitivo calcio in culo al mondo indie. Sì, un bel calcio alle felpe scolorite, alle band mediocri da ascoltare a tutti i costi perché “lo dice Pitchfork”, a tutte queste stronze convinzioni che non hanno fatto altro che minare la scena indipendente italiana. Un plauso quindi alle ragazze e ai ragazzi di Youthless Fanzine, che hanno avuto il coraggio di mischiare le carte in tavola scegliendo come nome di punta del festival questa band romana che mi ha fatto ricredere su tutta la scena. Avete vinto la vostra scommessa, bravi.

Menzione d’obbligo per tutta la line up della giornata, che ha visto la crème de la crème della scena indipendente italiana (tra cui Jennifer Gentle e gli interessanti WOW) e un importante nome del movimento post punk, i seminali Gang Of Four, che a detta dei presenti hanno spaccato. Scusate ma durante il loro set sono dovuto fuggire temporaneamente a casa perché mia nonna novantacinquenne è finita all’ospedale… tutto molto rock, non c’è che dire!

Luca Villa

Foto di Luca Valcamonici

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