Copia della lettera inviata quest’oggi sabato 1 agosto dal fondatore di ABC Economics, Stefano Fugazzi, agli On. Renzi e Boschi.
Oggetto: Lettera aperta a RENZI Matteo e BOSCHI Maria Elena su debito e crescita
Mittente: Stefano Fugazzi
Alla Att. degli On. RENZI Matteo, Presidente del Consiglio dei Ministri, e On. BOSCHI Maria Elena, Ministro senza portafoglio per le riforme costituzionali e i rapporti con il Parlamento
La riflessione che segue scaturisce da una serie di analisi che il sottoscritto ha elaborato nel corso degli anni. È dall’estate del 2011, quella contraddistinta dalla ormai celeberrima lettera inviata dalla Bce all’allora Governo Berlusconi, che seguo l’evolversi della crisi europea. Già allora – e molto prima della conversione al “no euro” da parte di alcuni tra i più vocali economisti che oggi spopolano in rete (all’epoca sconosciuti ai più oppure su posizioni assai diverse dalle attuali, NdA) – ebbi il coraggio di evidenziare i limiti e l’imperfetto funzionamento dei meccanismi che regolano, e pertanto governano, la moneta unica.
È inutile negare l’evidenza: oggi l’Unione Europea, di cui l’Eurozona è un “sottoinsieme”, non è un sistema unico ed efficiente; può contare su una buona integrazione con il Mercato Unico e con gli scambi di beni, servizi e persone, ma presenta delle fortissime contraddizioni e differenze nei più svariati settori, all’interno di diversi paesi. L’Ue ha una sicura gestione della moneta unica grazie all’indipendenza politica della BCE, ma deve ancora percorrere tantissima strada per completare il processo d’integrazione e di unificazione.
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In oltre quattro anni di lavoro, spesso in notturna, ho avuto modo non solo di commentare la crisi greca e dell’Eurozona, ma anche di ricercare soluzioni. Nel 2013, a pochissimi mesi di distanza dall’approvazione del Fiscal Compact, pubblicai “Idee per l’Italia”, un saggio nel quale presentai una panoramica esaustiva delle principali proposte in materia di riduzione, e di contenimento, del debito pubblico italiano. Questa attività mi ha in seguito portato ad analizzare una serie di proposte volte a rilanciare l’economia italiana ed europea in un contesto di permanenza nella moneta unica (si faccia riferimento ad “ABC Italia – Abbiamo Bisogno di Crescita” pubblicato nel 2014).
Dura lex sed lex
Il lettore “no euro” più intransigente, e con i paraocchi, potrebbe a questo punto storcere il naso e cestinare quanto segue. Mi affido, tuttavia, alla lungimiranza e l’apertura mentale dei miei lettori, o per lo meno di coloro disposti al dialogo e pertanto alla ricerca di una soluzione politica, oltre che economica, condivisa che non vanifichi anni, anzi, decenni di cooperazione a livello europeo.
In un mondo ideale, potendo mettere mano ai regolamenti e alle architetture che governano l’Ue, avrei costruito, e costruirei, un’Europa diversa capace di unire e quindi massimizzare le sinergie e le (tante) competenze-trattino-risorse che la contraddistinguono.
Come ho già avuto modo di evidenziare, sarebbe troppo facile “rottamare” l’intera Europa e fare marcia indietro su pressoché tutti i fronti. Per quanto mi riguarda, un cambiamento a 360 gradi è politicamente irrealizzabile. È mera utopia. Coloro che richiedono azioni “drastiche” e cambiamenti su larga scala probabilmente ignorano quello che è l’iter burocratico europeo che, nel caso dell’approvazione dei trattati, richiede l’unanimità. È difficile pertanto pretendere un repentino cambiamento di rotta soprattutto quando tutto sommato, escludendo il caso particolare della Grecia, la fase di acuta della crisi all’interno della zona euro pare essere stata superata.
Occorre pertanto entrare nell’ordine di idee che le leggi e i regolamenti europei, seppur troppo rigidi e talvolta irrealistici, debbano essere, in linea di massima, rispettati. Dura lex sed lex.
Sulle pagine di ABC Economics il sottoscritto ha recentemente recepito positivamente la proposta avanzata dal Governo Renzi di ridurre il cuneo fiscale (si faccia riferimento a “Ok al piano taglia-tasse di Renzi, ma serve revisione spesa e asset pubblici”). Al tempo stesso, evidenziai anche alcune criticità riguardanti le coperture finanziarie (leggasi “pareggio di bilancio”) e l’impegno preso in materia di riduzione del rapporto debito/Pil (leggasi “Fiscal Compact”).
Il rapporto debito/Pil al 60%, da Maastricht a Reinhart e Rogoff
Nel 2010 due autorevoli economisti dell’Università di Harvard e del Maryland, Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, pubblicarono sulla prestigiosissima American Economic Review uno studio intitolato “Growth in a time of debt”, dimostrando come alti livelli di debito pubblico risultino negativamente correlati con la crescita economica e, in modo particolare, quando il rapporto debito/Pil supera il 90%.
Sebbene Reinhart e Rogoff siano stati molto attenti nel ribadire che i loro risultati non dimostrano l’esistenza di un rapporto causa-effetto tra debito e crescita, molti commentatori e politici hanno voluto vedere nelle loro conclusioni un nesso causale, per poi utilizzare il presunto legame debito-crescita come un argomento a favore delle politiche di austerità.
La discussione sul rapporto tra debito e crescita nelle economie avanzate si è accesa in seguito alla pubblicazione di un articolo di Herndon, Ash, e Pollin che contesta alcune conclusioni di “Growth in a time of debt”. Secondo gli economisti dell’Università del Massachussetts (UMass), il lavoro di Reinhart e Rogoff sarebbe da invalidare perché viziato da un grossolano errore in Excel. Nel frattempo però altri studi (Hoogduin L., Oztturk B., Wierts P., 2011; Legrenzi G.D., Milas C., 2011 dimostrano che quando il rapporto debito pubblico/PIL supera l’85%, l’eccessivo stock di debito rallenta la crescita di almeno un punto percentuale) hanno confermato l’esistenza di una soglia oltre la quale il rapporto debito/Pil inizia ad avere un impatto negativo sulla crescita, una nozione che – anche per chi non è familiare con le ricerche in ambito accademico ed economico – può risultare plausibile.
A stupire non è l’errore in Excel in sé, ma il fatto che ad aver animato l’intero dibattito nella primavera del 2013 sia stata la sola convinzione di voler quantitativamente identificare la soglia target del rapporto debito/Pil, tralasciando una serie di altre valutazioni, anche qualitative, così importanti da poter poi influenzare le conclusioni di questi studi. Praticamente nessuno, infatti, ha dato sufficientemente importanza ad elementi quali la Storia e la struttura demografica di ciascuna Nazione, l’unità monetaria adottata e l’appartenenza o meno a un’area economica.
L’Europa stessa da Maastricht in poi ha commesso lo stesso errore, fissandosi, anzi, inventandosi un target – quello del un rapporto debito/Pil pari al 60% – che molto probabilmente verrà prima o poi ricalibrato (o rimosso) dai policy maker del Vecchio Continente.
Ma anche prendendo per buona la concezione secondo cui un eccessivo stock di debito dreni importanti risorse all’economia e rallenti la crescita, è importante mantenere il rapporto debito/Pil sotto controllo e ridurlo quando esso inizia a diventare un fardello troppo pesante e oneroso.
Difficile scendere al 60%, ma occorre comunque ridurre il rapporto debito/Pil
In una mia precedente analisi, basata su dati al 2013, spiegai come anche allestendo la più importante azione di dismissione e privatizzazione di asset mobiliari e immobiliari pubblici al mondo non si riuscirebbe a portare il rapporto debito/Pil sotto il 90%. Figurarsi al 60% come richiesto da Maastricht ieri e dal Fiscal Compact oggi.
Il conseguimento del questo target è problematico per almeno due motivi. In primis perché si richiederebbe al denominatore, cioè al Pil, di crescere in maniera robusta e costante, un fatto che non si verifica da diversi anni (anche quando la Lira aveva ancora corso legale, NdA). In seconda istanza perché la riduzione del numeratore, cioè dello stock di debito, richiederebbe azioni così drastiche che andrebbero a toccare gli equilibri, e quindi anche gli interessi, politico-economici dei salotti della politica-trattino-finanza nostrana.
A prescindere da quelli che sono i parametri europei e gli standard imposti dal Fiscal Compact, il sottoscritto è dell’avviso che sia prioritario prendere delle misure mirate al contenimento e alla riduzione del rapporto debito/Pil. Ero convinto di questa nozione nel 2012-13 e lo sono ancora tutt’oggi.
Una parziale soluzione ai problemi che attanagliano la nostra economia consiste nel liberare risorse da successivamente destinare al Paese in varie modalità, anche sotto forma della riduzione del cuneo fiscale che grava su cittadini, aziende e lavoro.
Una vera spending review cioè la ri-allocazione delle risorse tra i centri di costo
In primis occorre fare in modo che una volta ridotto il debito esso non torni a crescere in maniera incontrollata. Siamo al corrente che il problema principale consiste nello stock complessivo del conto per interessi più che nella spesa primaria. Detto ciò, seppure la spesa primaria sia tutto sommato in linea con la media europea (si faccia riferimento al seguente approfondimento: “La spesa pubblica in Italia e in Europa”) il sottoscritto è dell’avviso che l’allocazione delle voci sia lungi dall’essere ottimale. Da qui la necessità di operare una spending review che riveda la distribuzione dei singoli costi più che portare una riduzione complessiva. L’obiettivo sarebbe quello di trasferire risorse laddove richieste reperendole dai centri di costi sovradimensionati e/o superflui.
Allo scopo, si potrebbe prendere a modello l’esempio giapponese, ossia affidando a un’unità governativa il compito di rianalizzare i singoli centri di costo e dando ai cittadini la possibilità di contribuire in prima persona alla revisione segnalando sprechi e inefficienze. Il Club propone, inoltre, di affiancare alla Spending Review anche i cosiddetti “Fiscal Council”, ossia istituzioni indipendenti preposte alla gestione e alla supervisione della politica fiscale.
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Contestualmente occorre ridurre lo stock di debito e quindi il rapporto debito/Pil attraverso una serie di dismissioni di asset mobiliari e immobiliari pubblici. Senza pensare magari ad azioni di larga scala di difficile attuazione per i motivi sopracitati, si potrebbe tuttavia iniziare ad alleggerire il fardello dismettendo una parte dei beni pubblici disponibili e non strategici (magari attraverso l’emissione di obbligazioni “cum warrant”) e valorizzando il patrimonio artistico attraverso un piano di concessioni e di partnership miste pubblico-privato.
La dismissione di asset non strategici e disponibili attraverso l’emissione di obbligazioni “cum warrant”
La proposta descritta di seguito ricalca alcuni aspetti della piano “taglia debito” di Michele Fratianni, Antonio Maria Rinaldi e Paolo Savona. Nello specifico si prevede il trasferimento di una parte del patrimonio immobiliare disponibile e non strategico a una società pubblica appositamente costituita. Il fondo si accollerebbe l’onere di emettere obbligazioni “cum warrant”, reperendo liquidità fresca da trasferire al Tesoro senza, tuttavia, collocare immediatamente gli immobili sul mercato. Si userebbe, pertanto, lo strumento delle obbligazioni “cum warrant” per conferire ai possessori la facoltà di acquistare i beni oggetto di dismissione a una data futura (tra 5 o 10 anni in base alla tipologia di immobili da opzionare). Gli interessi da corrispondere su base annua equivarrebbero al più grande tra la variazione percentuale del costo ufficiale della vita e la metà della rivalutazione percentuale dei valori di mercato degli immobili. Un esempio può risultare chiarificatore. Se nell’anno 20XX l’inflazione si è attestata al 2,5% mentre il valore medio degli immobili si è rivalutato del 6%, al titolare dell’obbligazione verrebbe corrisposto un interesse pari al 3% (6% x 0.5).
Un piano di concessioni sul patrimonio artistico italiano
L’Italia possiede il più grande patrimonio artistico e culturale al mondo con oltre 9 mila tra monumenti, aree archeologiche, musei e siti UNESCO. Nonostante questa enorme ricchezza, il ritorno economico dei nostri beni culturali è significativamente inferiore a quello di Francia, Regno Unito e Stati Uniti. La società di consulenza PwC ha stimato che i siti UNESCO di questi Paesi generino un ritorno commerciale pari a 4, 7 e 16 volte quello italiano.
L’Articolo 9 della nostra Costituzione prevede la valorizzazione e la tutela di questo enorme tesoro (“La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”).
Si potrebbe, pertanto, prendere spunto da una proposta avanzata nel 2012 da Rainer Masera, ex ministro del Bilancio e Programmazione Economica del Governo Dini, e Giuseppe Bivona, ex dirigente di Goldman Sachs e Morgan Stanley, nella quale si proponeva di riqualificare il patrimonio storico, artistico e culturale del Bel Paese avviando un processo virtuoso che preveda l’introduzione dei titoli di proprietà “freehold” e “leasehold”.
La distinzione degli immobili demaniali fra “freehold” – il diritto sulla proprietà immobiliare pieno e assoluto – e “leasehold” – il diritto sulla proprietà immobiliare per un determinato numero di anni (generalmente tra i 50 e i 99 anni) – consentirebbe allo Stato (il “freehold”) di realizzare pressoché interamente il valore finanziario corrispondente alla vendita tradizionale pur mantenendo i diritti di proprietà sugli immobili e le opere artistiche di valore storico.
L’introduzione dello strumento del “leasehold” non solo genererebbe un importante ritorno economico, ma darebbe nuovo impeto al turismo italiano, incoraggiando la preservazione di edifici e opere artistiche attraverso la realizzazione di poli museali privati e di percorsi turistici volti a valorizzare i patrimoni architettonici, geografici e culinari.
Con stima
Stefano Fugazzi
Fondatore del think tank indipendente ABC Economics. Esperto di rischio bancario. Autore dei saggi “IDEE PER L’ITALIA – Abbattere il debito pubblico per restituire allo Stato la sovranità in politica economica”, “ABC Italia (Abbiamo Bisogno di Crescita)”, “ABC Economipedia” e “Brexit?”